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La Catechesi Adulti

La ricerca di Dio nell’angoscia

Esercizi Spirituali di Avvento 2016

Le preghiere di Giacobbe

martedì 22 novembre - 2° incontro – La ricerca di Dio nell’angoscia

(Genesi 32, 2-22)

[2] Mentre Giacobbe continuava il viaggio, gli si fecero incontro gli angeli di Dio. [3] Giacobbe al vederli disse: «Questo è l’accampamento di Dio» e chiamò quel luogo Macanaim.

Giacobbe prepara l’incontro con Esaù

[4] Poi Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù, nel paese di Seir, la campagna di Edom. [5] Diede loro questo comando: «Direte al mio signore Esaù: Dice il tuo servo Giacobbe: Sono stato forestiero presso Làbano e vi sono restato fino ad ora. [6] Sono venuto in possesso di buoi, asini e greggi, di schiavi e schiave. Ho mandato ad informarne il mio signore, per trovare grazia ai suoi occhi». [7] I messaggeri tornarono da Giacobbe, dicendo: «Siamo stati da tuo fratello Esaù; ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattrocento uomini». [8] Giacobbe si spaventò molto e si sentì angosciato; allora divise in due accampamenti la gente che era con lui, il gregge, gli armenti e i cammelli. [9] Pensò infatti: «Se Esaù raggiunge un accampamento e lo batte, l’altro accampamento si salverà». [10] Poi Giacobbe disse: «Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre Isacco, Signore, che mi hai detto: Ritorna al tuo paese, nella tua patria e io ti farò del bene, [11]io sono indegno di tutta la benevolenza e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo. Con il mio bastone soltanto avevo passato questo Giordano e ora sono divenuto tale da formare due accampamenti. [12] Salvami dalla mano del mio fratello Esaù, perché io ho paura di lui: egli non arrivi e colpisca me e tutti, madre e bambini! [13] Eppure tu hai detto: tanto numerosa che non si può contare». [14] Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte. Poi prese, da ciò che gli capitava tra mano, di che fare un dono al fratello Esaù: [15] duecento capre e venti capri, duecento pecore e venti montoni, [16] trenta cammelle allattanti con i loro piccoli, quaranta giovenche e dieci torelli, venti asine e dieci asinelli. [17] Egli affidò ai suoi servi i singoli branchi separatamente e disse loro: «Passate davanti a me e lasciate un certo spazio tra un branco e l’altro». [18] Diede questo ordine al primo: «Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: Di chi sei tu? Dove vai? Di chi sono questi animali che ti camminano davanti? [19] tu risponderai: Del tuo fratello Giacobbe: è un dono inviato al mio signore Esaù; ecco egli stesso ci segue». [20] Lo stesso ordine diede anche al secondo e anche al terzo e a quanti seguivano i branchi: «Queste parole voi rivolgerete ad Esaù quando lo troverete; [21] gli direte: Anche il tuo servo Giacobbe ci segue». Pensava infatti: «Lo placherò con il dono che mi precede e in seguito mi presenterò a lui; forse mi accoglierà con benevolenza». [22] Così il dono passò prima di lui, mentr’egli trascorse quella notte nell’accampamento.

Abbiamo lasciato Giacobbe mentre fuggiva da suo fratello. Lo troviamo ora, al capitolo 32, mentre torna a casa e lo troviamo ancora in preghiera. Non è passato poco tempo, sono passati vent’anni. Quando è partito Giacobbe aveva quarant’anni, adesso ne ha sessanta. Nei capitoli che non abbiamo letto Giacobbe ha preso moglie, anzi ne ha prese due, ha avuto dei figli e si è arricchito.

Questo gli ha causato la gelosia del suocero, che è anche suo zio, fratello della madre, presso il quale era andato mentre fuggiva.

Giacobbe comprende che è meglio per lui cambiare aria, è meglio tornare indietro e in questa decisione ha l’appoggio delle due mogli e anche l’appoggio di Dio. Anzi Dio, che in quei vent’ anni passati presso lo zio Labano non è stato né assente, né silente, nel senso che si è fatto più volte presente a Giacobbe, confortandolo e anche consigliandolo, a questo punto trasforma in un ordine quella promessa che aveva fatto nel momento in cui Giacobbe ha iniziato il suo viaggio: “io sarò con te, ti farò ritornare in questa terra”.

Al capitolo 31 versetto 3, Dio ordina: “Giacobbe, torna alla terra dei tuoi padri, nella tua famiglia e io sarò con te”. Giacobbe dunque parte con una chiara parola di Dio che lo indirizza, parte con le mogli, con i figli e con i beni.

Mentre è in viaggio fa una nuova esperienza di incontro con Dio. Nuovamente il Signore in questo passaggio fondamentale si fa incontro a Giacobbe: “Gli si fecero incontro gli angeli di Dio.” Il testo parla di angeli cioè di messaggeri di Dio, però, nella Bibbia la figura dell’angelo è la mediazione sensibile e visibile della presenza di Dio. La figura dell’angelo è mediatrice di una particolare forma di manifestazione di Dio, che passa attraverso la visione di qualcosa, quindi una teofania. Ma l’angelo in quanto messaggero porta una parola che non è propria, l’angelo non è Dio, ma nello stesso tempo fa vedere Dio.

Quando, nella Bibbia, l’angelo parla non è insolito il fatto che poi si dica che ha parlato Dio. Quindi quando c’è una manifestazione udibile, quando si ascolta una parola li subentra proprio la presenza di Dio. Non c’è bisogno di mediazione sulla parola, c’è bisogno di mediazione per la vista. Quindi attraverso quello che hanno detto gli angeli si parla di un nuovo incontro di Giacobbe con Dio. Sono forti i rimandi all’incontro che abbiamo visto ieri. C’è il parallelismo della situazione: Giacobbe stava partendo, Giacobbe ora sta tornando. Il verbo che troviamo: “Gli si fecero incontro” è lo stesso verbo che abbiamo trovato ieri. In entrambi gli episodi c’è la mediazione degli angeli, quindi la situazione è molto simile. Qui, però, non abbiamo un sogno e non abbiamo le parole del narratore che ci riveli, senza nessun nascondimento, quello che accade. Noi possiamo solo avvicinarci a questa esperienza guardando quello che Giacobbe fa e ascoltando quello che Giacobbe dice.

Che cosa sperimenta Giacobbe? Come già nel momento della sua partenza, anche questa volta Giacobbe riconosce il Signore. Al versetto 3 Giacobbe dice: “questo è l’accampamento di Dio”. Vede gli angeli e riconosce la presenza di Dio. E, come è accaduto a Betel, fissa la sua esperienza dando un nome al luogo in cui si è verificata: “Betel” significa “casa di Dio”, ora questo luogo viene chiamato “Macanaim” che significa due accampamenti. Si tratta di una forma duale. Questa forma fa capire che, anche se Giacobbe ha riconosciuto che si tratta di un incontro con Dio, questa manifestazione di Dio per lui non è per niente chiara. Non è chiaro per lui il significato di questo incontro con Dio per la sua vita. Quindi se, dopo il sogno di Betel, Giacobbe aveva espresso la sua esperienza cambiando direzione al suo desiderio fondamentale, quindi alla sua vita (aveva preso la pietra, l’aveva alzata in piedi), qui Giacobbe riconosce la presenza del Signore ma, invece di sentire in questo il realizzarsi di quella promessa: “io sarò con te”, invece di sentirsi confermato nel cammino che lo sta portando a casa e che ha intrapreso per comando di Dio, questa esperienza fa sorgere in Giacobbe una sorta di sdoppiamento che mette in luce la divisione interiore di Giacobbe.

Questo incontro lascia Giacobbe nell’incertezza. Giacobbe non sa che cosa fare. Se noi andiamo avanti a leggere vediamo cosa fa Giacobbe dopo questo incontro. Nei versetti dal 4 al 6 vediamo che Giacobbe organizza una missione, cerca di interpretare il significato della visione dei messaggeri.

Ha visto degli angeli e manda degli angeli. Manda dei messaggeri, ma la parola è la stessa. Li manda al fratello Esaù e dalle sue parole, versetti 5 e 6, scopriamo che Giacobbe si riconosce benedetto: “Sono venuto in possesso di buoi, asini e greggi, di schiavi e schiave.” Giacobbe si riconosce benedetto e lo rende noto al fratello, ma nello stesso tempo sente il peso del passato, di una colpa che forse per vent’anni aveva lasciato alle spalle, una colpa che la stessa benedizione di Dio gli aveva permesso di lasciare alle spalle, in modo che non condizionasse più la sua vita e potesse rifarsi una vita non come fuggiasco ma come benedetto. Ora però, avvicinandosi il momento dell’incontro con la vittima dei suoi raggiri, tutto questo sembra non valere più per Giacobbe che sente la necessità di trovare grazia e di essere riconosciuto dal fratello per trovare grazia ai suoi occhi. Il gesto di trovare grazia è quello che fa un inferiore verso un superiore chinandosi. Quindi Giacobbe sta dicendo ad Esaù tu sei superiore a me.

Quando i messaggeri ritornano e riferiscono a Giacobbe che Esaù gli sta andando incontro con 400 uomini, che è la cifra biblica che esprime la spedizione armata, Giacobbe ha paura e si sente angosciato. L’esperienza di Giacobbe descritta al versetto 8: “Giacobbe si spaventò molto e si sentì angosciato”, è quella di chi, da una parte, ha visto la presenza di Dio nella sua vita, ha visto quello che il Signore ha fatto per lui e ci crede, ma, dall’altra parte, non riesce a fidarsi fino in fondo e inizia a dubitare che davvero la benedizione di Dio possa riscattare la sua vita “in toto”, cioè fin dalle origini, forse perché lui stesso fa fatica a raggiungere, a stare a confronto “in toto” con la sua vita, cioè raggiungere le origini.

Che cosa c’è all’origine per Giacobbe? All’origine c’è quella relazione conflittuale con Esaù che già prima della loro nascita era iniziata, perché la madre Rebecca sentiva in grembo i due gemelli litigare. All’origine di Giacobbe c’è il tenere il calcagno di Esaù fin dalla nascita, c’è la menzogna, c’è l’inganno. C’è quel passato che fino ad ora non era mai emerso negli incontri con Dio e se il libro del Siracide al capitolo 12 afferma che ogni trasgressione è una spada a doppio taglio, non c’è guarigione alle sue ferite, più si avvicina l’incontro con Esaù, più sotto un’apparente rimarginazione, la piaga della ferita antica si manifesta in tutta la sua gravità.

Nella Bibbia però c’è anche un’altra realtà che viene paragonata ad una spada a doppio taglio e ha delle ripercussioni interiori. Nel Nuovo Testamento, infatti, la lettera agli Ebrei riprende la stessa immagine della spada a doppio taglio, a proposito della parola di Dio. La parola di Dio non procura ferite inguaribili come la trasgressione, anzi al contrario è in grado di curare proprio le ferite esistenti, perché è capace di raggiungerle, potremmo dire di metterle nel piatto, perché penetra fin al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, sa discernere sentimenti e pensieri del cuore (Lettera agli Ebrei 4, 12).

Si tratta dunque di un’azione chirurgica e profonda che fa emergere, per eliminarle, le contraddizioni. Non è un’azione sempre piacevole ma risana e per questo non va fuggita. Ci vuole tempo, perché la parola di Dio non produce immediatamente il suo effetto consolatore. E l’inquietudine, l’agitazione, a volte sono segno che è in atto questa azione di Dio e che essa incontra resistenza, fatica a fidarsi fino in fondo, incontra la paura di perdere qualcosa. Per quanto possa sembrare paradossale e andare contro i nostri luoghi comuni, a volte l’incontro con Dio inquieta. Chi cerca nella preghiera solo consolazione e pace, sfuggendo all’incontro corpo a corpo con la parola di Dio, finirà ben presto di pregare, non pregherà più e si troverà a dialogare solo con sé stesso.

Torniamo a Giacobbe. Lo abbiamo lasciato nella paura e nell’angoscia. Giacobbe continua ad interpretare quanto ha vissuto. Ci prova. Divide in due i suoi beni, crea due accampamenti, elabora una strategia: decide di dividere gli accampamenti rendendo manifesta, in un certo, senso la divisione interiore che lo attanaglia.

Nella vita di Giacobbe tutto è doppio: ci sono due gemelli, cioè lui e suo fratello, per un’unica benedizione; ci sono due donne, le sue mogli, che si battono per l’amore di un unico uomo; ci sono due greggi, il suo e quello del suocero i cui capi si distinguono per il colore; ci sono ora due accampamenti cioè due parti di quel bene che indica la benedizione che Giacobbe ha ricevuto. Questo bene ora viene diviso. Paradossalmente con questo atto Giacobbe riconosce che questa divisione serve a qualcosa.

Giacobbe manda avanti i suoi beni sperando che se uno dovesse venir meno almeno si salverà l’altro e li divide però prima di agire. Prima di continuare la sua azione prende l’iniziativa anche con il Signore, quindi non fugge a quella fatica di stare in quella divisione interiore. Non fugge e, non avendo compreso il messaggio, persevera, insiste e, potremmo dire, che continua a pregare, continua a cercare il Signore anche se non capisce che cosa il Signore gli sta dicendo, e lo cerca nella preghiera. Questa è la prima volta che Giacobbe prega, nel senso che parte da lui l’iniziativa, nel senso che per primo rivolge delle parole a Dio. Anche se abbiamo visto che c’è stata una visione precedente, di fatto, questa è un’iniziativa di Giacobbe.

Fino ad ora Dio lo ha sempre preceduto. In realtà anche adesso lo ha preceduto, però possiamo dire che Giacobbe con le sue insistenze si dispone all’incontro, è attivo, e la sua preghiera è profondamente inserita nella situazione che sta vivendo. Anche dal punto di vista del racconto, si trova incastonata tra i versetti da 2 a 9 e i versetti da 14 a 22 che saranno ancora focalizzati sull’incontro con Esaù. Questa preghiera occupa i versetti dall’11 al 13, è strutturata secondo uno schema tipico delle suppliche nella Bibbia. Chi prega riconosce la grandezza di Dio, riconosce i suoi benefici, riconosce le sue promesse e, in nome di queste, chiede salvezza e protezione, e nello stesso tempo ricorda la propria debolezza e la propria indegnità. Questa preghiera di Giacobbe è costruita così, all’inizio (versetti 10-11) e alla fine (versetto 13) troviamo la memoria dei benefici di Dio e l’indegnità di Giacobbe, al centro (versetto 12) la richiesta.

Vediamo le parti esterne: i benefici di Dio. Giacobbe inizia a pregare: «Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre Isacco», inserisce quindi sé stesso nella linea della promessa e della protezione, risalendo alle due generazioni prima di lui. Di per sé il Dio del padre Abramo e del padre Isacco vale anche per Esaù, Giacobbe però, poi, invoca Dio non solo come Dio dei padri ma anche come presenza concreta nella propria vita, come Dio che è entrato nella relazione con lui con la promessa di aiuto e di benevolenza e con l’ordine di tornare: “che mi hai detto ritorna al tuo paese”. Quindi potremmo dire che i benefici che Giacobbe ricorda sono molto personali e nel formulare la sua preghiera Giacobbe raccoglie gli elementi da tutti gli interventi di Dio rivolti a lui fino ad ora.

Nella preghiera di Giacobbe emerge anche la percezione che egli ha della promessa di Dio, anche se Dio, quando si è rivolto a Giacobbe ha sempre chiamato la terra del ritorno, terra dei padri e della famiglia, al versetto 10, Giacobbe la rende solo sua: “tu che mi hai detto ritorna al tuo paese”.

Forse ritenendo impossibile che il ritorno comprenda anche il fatto che le relazioni familiari divengano oggetto di preghiera. Di fronte a tutti questi benefici Giacobbe si dichiara indegno e, al versetto 13, con un nuovo appello, potremmo dire, un nuovo riconoscimento, una nuova confessione di lode, con il nuovo appello alla promessa di Dio, Giacobbe ricorda le parole del sogno che ha fatto a Betel ma anche le parole della promessa di Abramo (l’immagine della sabbia del mare viene dalla promessa di Abramo non da Betel): “Ti farò del bene e renderò la tua discendenza come la sabbia del mare”. A Betel si parlava di polvere della terra. In ogni caso Giacobbe si sente erede di questa benedizione e su questo fonda la sua richiesta. Chiede a Dio di intervenire per essere fedele alle sue promesse. Dice che ha paura, paura del fratello, il ricordo della paura di Esaù rientra nella preghiera come situazione di pericolo, di pericolo sofferto da Giacobbe e quindi necessario di essere preso in considerazione da Dio.

Esaù viene dipinto in maniera negativa ed ostile, come uno che può colpire senza riguardi le donne e i bambini. In un certo senso Giacobbe sta dicendo a Dio: se non mi salvi, tutto quello che mi hai promesso finisce. Con un’abile retorica Giacobbe dice a Dio che deve intervenire perché altrimenti Esaù è in grado di annullare il suo appoggio.

Che effetto fa la preghiera di Giacobbe? Se noi leggiamo i versetti dal 14 al 22 ci accorgiamo che Giacobbe non è cambiato molto. Giacobbe è sempre angosciato e pensa di placare il fratello attraverso un tributo, anzi più tributi. Potremmo dire che la divisione viene spinta all’esasperazione: suddivide i suoi beni in tanti tronconi in modo che ogni volta Esaù incontri un dono per lui, un tributo. Però, di fatto, vediamo che Giacobbe non è riuscito ad uscire da questa situazione, anzi mette davanti a sé tutto quello che ha, si copre con altro, così come si era coperto per farsi benedire dal padre.

Ma allora, il fatto che Giacobbe non cambia neanche un po’ vuol dire che Dio non ascolta la preghiera? Quante volte nella nostra vita spirituale ci sembra che il Signore non ci ascolti. Noi gli apriamo il cuore, siamo sinceri, eppure la nostra angoscia non si placa e il Signore rimane in silenzio. Questo è il dramma nella preghiera.

Nello stesso tempo potremmo dire che la preghiera di Giacobbe è sincera, ma non è vera fino in fondo. Non si tratta di ipocrisia perché a volte capita che la preghiera sia ipocrita. Qui si tratta di essere sinceri ma nello stesso tempo non veri, perché la sincerità riguarda la coscienza di chi parla, la verità riguarda l’essere in sé. Si può non abbandonarsi completamente, in verità, al Signore quando ci sono riserve che non si conoscono ancora, di cui non si è consapevoli, di cui non si è coscienti o che si fa fatica ad accettare. La preghiera sincera ma non vera è sempre a portata di mano, perchè restringe l’ampio orizzonte della volontà di Dio alla misura del proprio interesse.

In altre parole, nella sua preghiera angosciata, Giacobbe ripercorre e ricorda la storia della sua benedizione con Dio al fine di assicurarsi da Dio il futuro di benedizione che Dio gli ha promesso. Questa è la volontà di Dio. Gliel’ha promesso Dio. Però legge l’assicurazione divina e la sua promessa in termini limitati, per quello specifico futuro che ci spaventa, per la soddisfazione del bisogno immediato che è la salvezza da Esaù, nei termini che Giacobbe stesso fissa. Per Giacobbe salvezza vuol dire solo salvezza dall’ira del fratello.

Quello che Giacobbe non riesce a lasciar toccare dalla relazione con Dio e a ricomprendere alla luce della promessa di Dio è il suo inganno. Giacobbe ricorda a Dio ciò che Dio ha detto e ciò che Dio ha fatto per lui, ma non ricorda il dissidio con il fratello, che è la causa del suo inganno, non ricorda che all’origine dell’ira di suo fratello c’è il fatto che gli ha rubato prima la primogenitura e poi la benedizione del padre.

Giacobbe chiede di essere salvato dalla mano del fratello, che viene dipinto come efferato, capace di uccidere donne e bambini, e dice che essere salvato è un modo per Dio di realizzare la sua promessa, lascia poco spazio a Dio, se non quello di accettare questa soluzione, oppure di incontrarlo in un altro modo. Intanto però si avvicina una nuova notte.

Raccolgo qualche pensiero anche per noi.

  • Per vent’anni Giacobbe ha lasciato che Dio agisse nella sua vita, e, con un linguaggio che possiamo dire più vicino alla spiritualità cristiana, Giacobbe ha agito secondo lo Spirito. Lo Spirito è la persona della Trinità che meno appare come persona, perché non sta davanti a noi, ma sta dentro. San Paolo nella lettera ai Romani dice che lo Spirito risiede nel cuore, e lo Spirito è co-soggetto della vita spirituale, desidera poi incarnarsi nelle nostre scelte.
    Giacobbe ha visto i frutti della presenza di Dio, della sua benedizione, ha capacità di stare e risolvere le situazioni conflittuali, intraprende il ritorno sulla scia di questa azione. Però lasciare agire Dio non è una cosa che si acquisisce e si mantiene una volta per tutte. Forze avverse la ostacolano. La tradizione spirituale riconosce in queste forze avverse l’azione del demonio che sostanzialmente cerca di far desistere dall’azione intrapresa.
    Negli esercizi spirituali, sant’Ignazio spesso parla dei demoni perché quando ci si dispone all’incontro con Dio per lasciare agire lui, entra in azione lo spirito cattivo che cerca di bloccare l’adesione al Signore. Anche nella vicenda di Giacobbe è accaduto così: egli ha riconosciuto la presenza del Signore su quella strada che sta percorrendo su sua indicazione ma qualcosa lo frena. L’azione del nemico, comunque, è seconda. Prima c’è l’azione di Dio.
  • Un secondo punto è questo: solo chi ha cominciato a fare l’esperienza di Dio farà anche l’esperienza dell’azione di questo nemico, perché non c’è solo lo Spirito nel cuore, ma ci sono anche altre forze tra cui, appunto, questo nemico che non può creare nulla ma solo disfare quello che lo Spirito ha fatto. Il nemico è un grande scenografo, ha il potere di far apparire quello che non è, non di realizzare ma di far apparire. E quando si crede a queste apparenze, come Giacobbe che ha sentito una notizia ed ha creato una situazione attorno all’avanzare di Esaù con 400 uomini, ha creato un film in cui Esaù è certamente ostile, cattivo. Così quando crediamo alle apparenze, succede che noi recitiamo la nostra parte all’interno del film che abbiamo creato e finisce che accade proprio quello che temevamo. Infatti il nemico trova in noi delle segrete connivenze, chiamate “carne” dalla Scrittura, non nel senso di corpo, ma tutto ciò che sia nell’anima che nel corpo è sottomesso alla corruzione. L’azione del nemico si insinua in tanti piccoli passaggi. Le sue, non sono tentazioni grossolane - quelle uno se le toglie subito - ma sono quei momenti di fatica/malattia, i sentimenti di insuccesso che scoraggiano, il ricordo di errori che portano al disprezzo, la paura nell’avvenire che paralizza. Allora l’azione del nemico si insinua e dice “vedi alla fine nulla ti può salvare, sei sempre il solito, questa storia della benedizione di Dio è tutta un’illusione”.
  • Terzo punto. Quando si prega non solo emergono le azioni del nemico, ma in prima battuta, l’incontro stesso con Dio può produrre inquietudine. La parola di Dio produce certamente frutto, ma ci impiega un po’ a produrre il suo frutto consolatore, incontra resistenze e, come per Giacobbe, può manifestarsi come spada a doppio taglio, come divisione che genera tristezza e scoraggiamento. In questi casi la via da seguire è quella che ha scelto Giacobbe: quella della perseveranza, la perseveranza coraggiosa cioè di tornare dal Signore, ad interpellarlo. Come Giacobbe, quando si prende una decisione in un momento di chiarezza, questa decisione va portata avanti. La perseveranza coraggiosa è quella che permette di incontrare il Signore anche nell’angoscia.
  • Questa sera propongo come grazia da chiedere, e nel cui desiderio crescere, perché noi quando chiediamo ci disponiamo a ricevere, la grazia che riguarda il “sentire” (non il “conoscere”, non il “sapere”; “sentire” è molto di più nella vita spirituale) cioè cogliere che un mistero che già conosco riguarda proprio me nella mia vita. Un po’ come ha fatto Giacobbe che ha preso la benedizione di Abramo e Isacco e poi l’ha calata nella sua vita.
    Vi invito a chiedere la grazia di sentire che l’amore di Dio mi raggiunge e mi salva fin dall’origine.