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Quaresima 2016

La parola e le opere

La parola e le opere

Visitare gli infermi - Visitare i carcerati

Vangelo di Matteo (Mt 9, 1-8)
Salito su una barca, passò all'altra riva e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portavano un paralitico disteso su un letto. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati». Allora alcuni scribi dissero fra sé: «Costui bestemmia». Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: «Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire "Ti sono perdonati i peccati", oppure dire "Alzati e cammina"? Ma, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati: Alzati - disse allora al paralitico - prendi il tuo letto e va' a casa tua». Ed egli si alzò e andò a casa sua. Le folle, vedendo questo, furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini.

Vangelo di Luca (Lc 23,39-43)
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». Ma l'altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male». E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

1. La misericordia.

La misericordia possiamo consegnarla alla meditazione di questa serata come le due facce della stessa medaglia. Cogliamo questa immagine dalla parola latina “misericordia” che è composta da due parti: “miseri cors”. La prima parte ha a che fare con una situazione di miseria, di povertà, una realtà che suscita pietà. La seconda parte è “cuore” ed è da intendere secondo la Sacra Scrittura per la quale cuore corrisponde all’identità più profonda della nostra esperienza vivente, non come un organo che costituisce il nostro corpo ma ciò che ci identifica profondamente. Il cuore è il luogo in cui vengono intercettate tutte le realtà che ci costituiscono, un luogo che è anche di profonda contraddizione: il desiderio, il fallimento, la frustrazione, la speranza, il peccato, il perdono, la morte, la vita.

Le due facce della misericordia ci riportano ai due brani di Vangelo che avete tra le mani. Vi si parla di due opere di misericordia: la prima, visitare gli infermi; la seconda, visitare i carcerati, due opere di misericordia che, a mio parere, sono molto simili tra loro. Dopo una brevissima esperienza di cinque anni vissuta come prete volontario, prima nel carcere di San Vittore e poi nel carcere di Monza, mi domando se la carcerazione non sia una malattia e se la malattia - e questo lo sto vivendo dal parroco e da cristiano quando vado a visitare gli infermi - non sia una carcerazione. Forse queste due situazioni non sono così distanti ma rappresentano un’unica realtà: l’infermità ci incarcera e la carcerazione esprime una profonda malattia del cuore.

Le due parole che compongono la parola misericordia hanno a che fare con queste due opere e con questi due brani di vangelo.

C’è un intervenire come atto di pietà verso i miseri e poi, più in profondità, c’è un intervenire che ha a che fare con la dimensione del cuore, cioè della vita. C’è un intervenire che ci porta a vivere una qualche forma di pietà nei confronti di chi soffre ma addirittura che porta vita là dove c’è la morte. E allora capite che i due volti della misericordia ci appartengono ma in modo relativo: se è vero che il primo volto, quello del farsi prossimo a chi soffre, potrebbe corrispondere alla nostra esperienza umana e cristiana, il secondo volto, quello che tocca il cuore che è vita e porta vita dove c’è la morte, riguarda soprattutto Dio che nel suo agire porta vita là dove c’è morte.

2. Il paralitico guarito

Il primo brano, tratto dal Vangelo di Matteo, indica chiaramente questo. Vorrei che questa sera, prima di pensare a che cosa dobbiamo fare per meritarci il paradiso o come dobbiamo vivere queste due opere di misericordia ci fermassimo per domandarci: “che cosa ci dobbiamo lasciar fare per poter vivere la misericordia? Per poter tentare di essere gente capace di misericordia?” La risposta a questa domanda, che può sembrare banale e scontata ma non lo è, è “lasciarci visitare da Dio che è misericordia”. In realtà, infatti, noi siamo gli infermi che hanno bisogno di essere visitati da Dio, in virtù del suo amore. Noi siamo i carcerati che Dio desidera assolutamente liberare dall’ombra della morte. Prendiamoci allora un tempo tutto nostro per godere di questo enorme dono; la fiducia di Dio ci è restituita ogni giorno nel suo venire a visitarci, nel suo non lasciarci soli nella nostra infermità e nella nostra carcerazione.

Nel primo brano del Vangelo mi ha colpito in maniera particolare un movimento di Gesù: Gesù sale sulla barca, passa all’altra riva. Per raggiungere quale meta?

La sua città. Qual è la sua città? Dal punto di vista storico i Vangeli ci dicono che la sua città è Cafarnao. (Gesù infatti è già nel pieno della sua vita pubblica. E’ partito da Nazaret. Si è stabilito a Cafarnao. Si è staccato dalla famiglia d’origine. Ha fondato la seconda famiglia che è quella dei discepoli. Incomincia la sua vita pubblica che è l’annuncio del regno di Dio.) Dunque storicamente la sua città è Cafarnao ma in realtà l’evangelista ci vuole comunicare che c’è una città più ampia di Cafarnao che Gesù vuole visitare, una città che è proprio una delle facce della misericordia: il cuore, il nostro cuore.

Dunque Gesù sale sulla barca. Vuole attraversare questo piccolo tratto del lago di Tiberiade per arrivare nella sua città e che cosa trova nella sua città? Un’infinità di bisogni a cui è chiamato a far fronte nel suo amore. Sul piano personale Gesù dice “io voglio dimorare dentro l’infermità della tua vita”.

A Cafarnao Gesù ha a che fare con una malattia terrificante, la paralisi. Anche oggi quando mi capita di visitare un malato colpito da paralisi divento preda di una sorta di profonda inquietudine. La paralisi mi fa paura più di un tumore, più di una morte improvvisa, più di una malattia prolungata. La paralisi mi fa paura perché ti deforma, ti rende immobile, ti priva in pochissimo tempo di tutte le tue funzioni vitali, ti rende in qualche modo morto pur mantenendoti nella vita terrena.

Gesù si trova di fronte a un paralitico, un uomo affetto da una malattia grave eppure, nonostante la evidente gravità di questa malattia, ci sta facendo capire che c’è una malattia peggiore, ed è la paralisi del cuore. Ogni volta che Gesù viene a visitarci non lo fa per un semplice gesto di carità, per stare al nostro fianco dal punto di vista della cordialità, o semplicemente per condividere come può le nostre fatiche, le nostre malattie. Gesù viene a visitarci per liberarci, per farci nuovi. Questo è il suo visitare.

Ecco perchè prima di mettere in campo ogni forma di carità dovremmo sostare a lungo per capire che cosa è carità. Io credo che riusciremo a capire che cosa è carità guardando all’esperienza concreta di chi la carità ogni giorno la vuole ricevere, perché questa è la vera umiltà del cuore.

Domandiamoci: “perché celebriamo la Quaresima?” Per rendere il cuore umile. Il cuore umile è il cuore che si rende conto di avere bisogno di tutto, di essere morto e di anelare alla vita. Ma solo una persona è in grado di corrispondere a questo bisogno: Gesù, il Signore. Ecco perché è necessario lasciarci incontrare da Lui. Mi viene alla memoria quell’esclamazione potentissima di San Paolo: “lasciatevi riconciliare da Dio”. Cristo ci sta dicendo proprio questo.

La Quaresima non è tempo fatto per ritornare alle buone abitudini come ad esempio “anche quest’anno ritornerò a fare penitenza”. Ma che cosa è penitenza? Se la penitenza che ogni anno hai fatto non solo non ti ha guarito dalla malattia ma l’ha ancora più incancrenita, allora la penitenza non serve. Questa Quaresima è vera quando cominci a dire “ecco Signore vieni a visitarmi, vieni a guarire le mie infermità e poi spiegami come tu le guarisci perché io possa godere di questa guarigione facendomi in qualche modo medico per l’altro”. La misericordia non ha nulla a che fare con l’arroganza di chi si sente migliore ma ha a che fare con la gioia di chi condivide con altri qualcosa che non doveva assolutamente ricevere ma che ha ricevuto per amore gratuito. E’ l’umiltà vera che ti fa dire: “Signore sono pronto, manda nel mio cuore tutta la tua misericordia. Non ho più paura di riceverla, non c’è più un briciolo di orgoglio dentro me”.

Si capisce allora come il farsi prossimo di Gesù che cura le nostre infermità è il rivelare da parte di Dio al nostro cuore. Lui stesso desidera abitare il nostro cuore. (Ci rendiamo conto di essere l’abitazione del Signore? Che il nostro potere più grande è quello di rendere felice Dio?)

Per tutta la vita ho vissuto una sorta di confusione pensando che il potere potesse consistere nel potere del denaro e del comando, in ogni forma e in ogni espressione. Anche dentro la Chiesa, pensavo che più in alto sono collocato nella gerarchia, più potere ho. Solo con il tempo ho progressivamente capito che il potere non è questo. Mi ha aiutato a capirlo una frase di un grande uomo, padre Davide Maria Turoldo, che nei suoi formidabili canti poetici che prima di essere poesia sono preghiera, diceva che il vero potere dell’uomo è quello di rendere felice Dio.

Ma procediamo. Quando rendi felice Dio? Quando nella tua infermità aneli alla sua presenza dentro di te, gli permetti di visitarti, gli permetti di liberarti, gli permetti di rimetterti in piedi, gli permetti di rifarti camminare nella quotidianità travagliata da mille cose, ma accompagnata dalla sua presenza.

Che bello poter arrivare alla Pasqua del Signore cantando nella sua resurrezione, che è la nostra, e fare come il malato del vangelo: prendere il lettino delle nostre paralisi, cioè la nostra vita fino a un istante prima della Pasqua segnata da grandi infermità dell’anima e magari qualcuna anche del corpo, e dire “grazie Signore, viaggio con questo lettino sottobraccio come ha fatto il paralitico a memoria dei miei errori, di una mia cattiva libertà giocata lontano da te e a memoria del tuo amore che mi hai messo in vita. Grazie Signore”.

Domandiamoci: “quante infermità incontriamo in ogni nostra relazione quotidiana?” L’infermo non è solo colui che è inchiodato in un letto per una malattia seria, infermo è chiunque ogni giorno incontriamo, perché è specchio di noi. Quale speranza andiamo portando se non l’abbiamo veramente capita, incontrata personalmente? Quale speranza andiamo portando? La speranza di una buona parola, la speranza di una pacca consolante sulle spalle. Quale speranza è la nostra se prima non ci è stata data la possibilità, attraverso la nostra libertà e volontà, di sperimentarla perché Dio ce l’ha offerta? Parlo della speranza della guarigione.

Il primo volto della misericordia è farsi vicino al misero e per Gesù di Nazaret farsi vicino al misero significa tutto questo: far sì che in Lui si possa ritrovare l’uomo e Lui si possa ritrovare in noi. Ridare vita all’infermità significa per Gesù riscoprirsi Dio, significa dare all’uomo la più grande delle opportunità, permettergli di riconoscersi come figlio. E’ solo dentro questa esperienza che noi riusciremo a fare una pastorale vera, che sia slegata dalla progettualità che ci porta sempre all’ansietà dei risultati, dei numeri. (Se ci pensate, nella Chiesa funziona sempre così. Quando vivi un’esperienza non ti viene mai chiesto “come è andata?” ma piuttosto “quanti eravate?” Siamo ammalati del successo, dell’immagine, del numero, del potere vincente. Quanto dobbiamo cambiare!)

Il Signore viene a restituirci questa grazia profondissima dicendo “io non ho paura della tua malattia e tu? “Ma che bello Signore poter vivere questa Quaresima beandoci delle nostre infermità! Non per mantenerle ancora a lungo ma per scoprire che è lì dentro che noi facciamo esperienza di Dio. Il Vangelo più psicologico che ci è stato consegnato è quello di Giovanni. In quel vangelo mi colpiscono le relazioni di Gesù con gli altri. Giovanni 2, le nozze di Cana. Giovanni 4, la samaritana. Giovanni 8, l’adultera. Giovanni 9, il cieco nato. Giovanni 11, la resurrezione di Lazzaro. Giovanni 21, il dialogo con Pietro. Quello che mi ha sempre colpito di questo relazionarsi di Dio con l’umanità è il suo desiderio di stare dentro le nostre infermità. Potremmo addirittura dire che l’infermità dell’uomo è la sua casa. La samaritana è attesa nelle sue infermità, l’adultera è attesa nelle sue infermità, Nicodemo è atteso nella sua infermità, Pietro è atteso nella sua infermità che possiamo decifrare col termine paura, tradimento. Il Signore non scappa come facciamo noi dalle nostre infermità.

Ma come puoi andare a visitare un infermo se non hai ancora sperimentato il gusto dell’essere visitato e curato da Dio nelle tue infermità e se non hai ancora capito che a Lui non dispiace abitare le tue infermità quelle infermità che tu rifuggi? Perché tu le nascondi? (Quante maschere ci mettiamo davanti al volto non solo per non far vedere agli altri le nostre infermità ma la cosa peggiore è che ce le mettiamo per non farle vedere neppure a noi.)

Il primo brano di vangelo mi ha spiazzato. Io che ho pensato che sarò sua abitazione solo quando non avrò più neppure l’ombra di un peccato, quando da solo mi sarò interamente sistemato! La conversione alla quale pensavo non solo non ha buttato fuori dal mio cuore la morte, ma addirittura ha alimentato la morte, perché sono sempre io, sempre io a sistemarmi. Sono sempre io: io sono riuscito a digiunare, io sono riuscito a fare questa penitenza, io sono riuscito a cambiare questo pezzo di cuore io, io, sempre io. Ma questo non è un cuore umile. È un cuore paralizzato dall’orgoglio come quello dei farisei.

“Ma che cosa va dicendo questo Gesù? Rimettere i peccati? Ma che cosa va dicendo?” E invece è proprio quello il male di cui il Signore ci vuole liberare, perché non c’è paralisi peggiore del peccato.

A questo punto passiamo alla seconda faccia della medaglia della misericordia: la seconda parte della parola “miseri cors”, quella che ha a che fare col cuore.

3. Il ladrone buono

È già tanto poter sentire che il Signore si fa prossimo e sostiene le mie infermità. E’ già tanto poter imparare anch’io a sostenere un po’ le infermità degli altri (del tuo collega insopportabile, della tua vicina di casa, perché il fatto che anche tu puoi fare un pezzo di strada per farti prossimo di quella persona tanto indigesta è grande cosa) ora Luca riserba il fuoco d’artificio per la seconda parte della parola misericordia, che è la più importante. Se è grande cosa scoprire che il Signore si fa prossimo, come potremmo spiegare che il Signore si carica delle nostre infermità, diventa Lui stesso infermità sulla croce per ridarci vita? Questa è la misericordia, non è il bon-ton delle relazioni, è il compromettere la vita, il cuore perché tu possa dare tutto ciò che sei, affinché l’altro possa ritrovare tutto ciò che ha smarrito.

Di questo tipo è stata fondamentalmente la mia esperienza soprattutto in carcere. Benedirò a vita questi nostri fratelli e sorelle detenute che devono giustamente pagare una pena per la colpa che hanno compiuto, perché la giustizia è giustizia, ma proprio dentro l’espirazione di quella pena devono anche recuperare tutto ciò che nella loro vita non ha mai avuto il sapore della vita. Loro mi hanno insegnato questa straordinaria dimensione dell’andare oltre della carità di Dio, una carità già eccezionale perché si fa prossimo alla mia miseria scendendo dal suo regno, si incarna, entra dentro nella mia storia. Già questa è una grande cosa ma c’è qualcosa che va oltre, c’è un amore “sine-modo”, una carità senza confine.

Prima di diventare prete desideravo capire cosa è la misericordia e ho chiesto di fare esperienza in un carcere perché mi rendevo conto che avevo un’idea di Dio ancora troppo legata alla mia ragione, alla mia intelligenza e poco al mio cuore. Come potevo diventare suo operaio, suo prete se non avevo ancora fatto esperienza viva di chi è Lui con il mio cuore? Ricordo una frase di San Filippo Neri: “per non andare all’inferno da morti è meglio andarci da vivo all’inferno”.

Quale inferno c’è più del carcere? Lì dove ogni forma di malattia è presente, lì c’è la lebbra dell’umanità che è anche la mia e mi può far bene toccarla. I carcerati mi hanno insegnato che cos’è il principio concreto di speranza, di disperazione, di colpa, però anche di dignità, di perdono, di solidarietà. Nello spazio più angusto e ristretto del mondo (una cella generalmente misura 3 metri per 4 e spesso è sovraffollata), in quello spazio angusto ho trovato la “caritas sine-modo”, la carità senza confine.

Il secondo brano di vangelo che vi è stato distribuito è tutto un paradosso. Sarebbe bello commentarlo per esteso e per questo lo lascio alla vostra lettura nei prossimi giorni. Mi limito a dire poche parole su come avveniva la condanna a morte sotto l’impero romano. La pena che i romani riservavano ai cittadini non romani era la crocifissione, una condanna terrificante per dolore fisico ma soprattutto dal punto di vista del dolore morale: nudo, alla mercé di tutti, eri considerato una cosa. Era una persona distrutta, soprattutto quando sapeva di non avere colpa alcuna. (Anche quando riconosci la tua colpa ti deve essere data la possibilità di una resurrezione, figurati quando sai di essere innocente come Gesù.)

In questo brano di vangelo Gesù si sottopone a un infernale supplizio per farci capire che cos’è la vera misericordia, quella di cui abbiamo assoluto bisogno, dal momento che siamo tutti mendicanti di felicità. Il problema è che andiamo a ricercarla in luoghi che non appagheranno mai questo desiderio, finché non incontriamo la vera misericordia. Ricordiamo Agostino che nelle “Confessioni”: ha scritto “il mio cuore era inquieto Signore finchè non ha dimorato in te”. Cosa voleva dire Sant’Agostino? “Ho deciso di lasciarti agire. Ti sei tuffato in me, Signore, più intimo della mia intimità e mi hai fatto sperimentare che tuffarmi in te e gustare la misericordia mi ha fatto rinascere.” Nella sua passione, il Signore, per farci capire tutto questo, ha sopportato, ha voluto soffrire non perché era masochista ma perché era amante dell’uomo, sempre (non ci tradisce come facciamo noi, noi con gli altri, noi con Lui); da amante dell’uomo si è tuffato dentro la più assoluta miseria dell’uomo diventando Lui stesso scandalo, come ci ricorda San Paolo nella lettera ai Galati: “come un obbrobrio pendeva dal patibolo”.

Sulla croce è tutto un paradosso: la croce aveva un cartello con scritto “re dei Giudei”, che è il motivo della condanna. Re dei Giudei; un re crocifisso che ha come trono due pezzi di legno che formano il patibolo. E’ veramente tutto un paradosso: “tu dici di essere re e sei crocifisso su questo trono che è scandalo e stoltezza” come ci ricorda San Paolo. I farisei che vanno cercando il Messia lo mettono alla prova consegnandolo a questa morte ignobile. Il punto più alto di questo paradosso è il modo con cui il Signore si consegna nelle mani dell’uomo per riscattare il cuore morto dell’umanità. Il ladrone buono, così lo definiamo, sentendo il Signore, osservandolo, capisce che dice qualcosa di diverso, completamente diverso. Capisce che lì c’è una speranza, che non è semplicemente una teoria ma che è una possibilità vera, capace di soddisfare finalmente ciò che nella vita non era mai riuscito a soddisfare: la pienezza di bene. Il ladro l’ha soddisfatta rubando, l’omicida l’ha soddisfatta sopprimendo l’altro. Sulla croce, nel momento più assurdo della vita, dove la speranza è annientata perché stai attendendo la morte, il ladrone buono incontra la vita. Gesù gli dice: “Oggi sarai con me in paradiso”. Qual è il segreto che il buon ladrone ci consegna? È ciò che ci siamo detti all’inizio di questa meditazione: non che cosa dobbiamo fare per conquistare il regno dei cieli, ma che cosa ci dobbiamo lasciar fare. A differenza dell’altro condannato che non ha avuto il coraggio di lasciar fare a Dio, il ladrone buono sì: capisce di fronte all’atteggiamento di Cristo la pienezza della misericordia, la misericordia che si fa carico delle nostre infermità, che le condivide Lui stesso e che, solo Lui, le rilancia a vita nuova per noi. Il ladrone buono capisce, vedendo Cristo, che tutta la sua vita è stata un errore ma che la sua vita è stata comunque valida perché nell’ultimo istante ha trovato la risposta dei suoi desideri più profondi. Ha trovato finalmente una felicità che ha il sapore del perdono.

Noi stessi ora siamo crocifissi da questa parola. Chi può vivere un perdono così? Se al mio vicino di casa non riesco neppure a rivolgere un saluto e giustifico questa mia scelta perché ho la pretesa di avere sempre ragione? Chi può vivere un perdono così? Saremmo folli se davvero dovessimo immaginare di riuscire a vivere un perdono così. Solo Dio può vivere un perdono così. Perciò noi ci dobbiamo sforzare di lasciarci perdonare così, per potere con Lui restituire il perdono.

Ma che cosa grande! Solo allora, quando ci lasceremo visitare dal Signore, saremo pronti a visitare gli infermi e i carcerati, cioè saremo pronti a visitare ogni giorno noi stessi con il Signore per potere con Lui andare verso gli altri dicendo “anche per te oggi è possibile vivere il paradiso”. Questo non è un sogno, è per noi verità.