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Le premesse

CATECHESI 2015-16

“I cento volti della misericordia”

giovedì 21 gennaio - 4° incontro – L’esperienza del perdono nel Sacramento della Confessione – Le premesse

Questa sera ci agganciamo all’ultimo incontro in cui avevamo parlato del perdono, della grande e difficile esperienza del “perdonare e del chiedere perdono”, un’esperienza che riguarda noi stessi, il rapporto con gli altri e con Dio.

Questa sera vorrei leggere l’esperienza del perdono che nella vita cristiana si ritrova nel sacramento della confessione. È un modo particolare di chiedere perdono perché ha a che fare con la vita della fede e che afferma che ogni forma di richiesta di perdono per gli sbagli che un cristiano ha commesso passa sempre da Dio, quasi a dire: noi possiamo essere perdonati solamente se passiamo attraverso questa esperienza di incontro con il Signore nel segno sacramentale.

Nei primi secoli la penitenza sacramentale era un’esperienza eccezionale, unica in tutta la vita o avveniva poche volte perché riguardava esclusivamente i peccati più importanti come l’omicidio, l’adulterio e l’apostasia (cioè il rifiuto della fede che poteva avvenire in occasione delle persecuzioni). Queste erano sostanzialmente le tre questioni e la confessione o penitenza, oltre a essere unica, aveva la caratteristica di essere pubblica.

Nel corso della storia, per vari motivi, questa esperienza da una parte si è allargata rispetto a ciò che veniva considerato peccato (si è passati dai tre che ho ricordato a molteplici altri) e d’altra la confessione è diventata “privata”. Questo cambiamento è avvenuto sia per il cambiamento della situazione storica e del tipo di peccati, sia per la dimensione della comunità cristiana che andava allargandosi.

Questo cammino ha trasformato l’esperienza della confessione come richiesta di perdono, esplicita, radicale, riferita a questioni essenziali in una esperienza che aiutava il cristiano nel suo cammino interiore sino ad arrivare a essere una esperienza legata alla devozione.

Ciò ha determinato lo spostamento dall’accusa di peccati verso una elevazione spirituale. Il cristiano, cioè, quando si prepara alla confessione pensa “mi confesso anche se non ho peccati gravi, perché so che la grazia di Dio che viene dal sacramento della confessione mi aiuta a crescere nella vita spirituale”. Si arriva così alla confessione frequente e privata, fondata non tanto o non solo su mancanze gravi, ma su mancanze anche semplici fino ad arrivare al punto in cui si dice che prima di far la comunione ci si deve confessare.

Oggi noi attraversiamo un momento molto particolare rispetto alla confessione. Innanzitutto c’è la difficoltà pratica di trovare un sacerdote disponibile ma, soprattutto, siamo di fronte a una sorta di evaporazione del concetto stesso di peccato. Infatti spesso ci si domanda: “per che cosa devo veramente confessarmi?” Così capita di sentire adulti che confessano cose banali, da ragazzi.

Forse è saltato qualcosa in tutto questo percorso. Per che cosa, allora, io mi devo veramente confessare? Cosa c’è di cui io mi devo pentire, chiedere perdono?

Questo avviene perché viviamo in una mentalità secondo la quale, nella valutazione di ciò che è bene e non è bene, conta soprattutto l’aspetto individuale e soggettivo, viviamo in un tempo in cui non esiste più neanche il tema della libertà ma quello dell’arbitrio, per cui sono io che decido se una cosa è bene e nessuno può dire nulla.

In questa situazione, di fatto, c’è il rischio di banalizzare la confessione. È del tutto evidente che se io vado a confessarmi per dire che ho commesso delle banalità implicitamente mi viene da pensare “cosa ci vado a fare”?

L’eccessiva soggettività nel valutare ciò che è bene e ciò che non è bene ha ridotto la confessione ad un momento residuale.

C’è poi da tenere presente che siamo figli di una cultura che parla di “coscienza”, un parolone pieno di dignità; ma che poi è diventata un’altra operazione di autogiustificazione: “secondo la mia coscienza......”. La strada della soggettività porta molto lontano.

Per tutti questi motivi riprendere il tema del perdono attraverso la confessione vuol dire ritrovare un equilibrio tra il mio modo di valutare la mia vita e un dato oggettivo che viene da fuori. Se vi ricordate nel vecchio catechismo ci veniva insegnato che per distinguere un peccato grave da uno meno grave si dovevano verificare tre condizioni:

  • la materia grave,
  • la piena coscienza e
  • il deliberato consenso.

Se ci pensiamo bene, in questa triade di condizioni sta un equilibrio sapiente tra il dato oggettivo, la materia grave, e la mia libertà, cioè essere consapevole e aver compiuto un’azione volontaria.

Oggi sembra che sei tu a decidere se la materia grave c’è o non c’è.

Per recuperare il senso del perdono sacramentale occorre riuscire a ripristinare questo equilibrio sostanziale. Come?

Attraverso due passi:

  1. Il primo: la consapevolezza del peccato è anzitutto un atto di fede.

Il peccato consiste nel riconoscere che un certo fatto è un peccato perché me lo dice la parola di Dio. Io posso anche essere poco convinto di questo, posso avere dei dubbi, ma se leggendo il Vangelo scopro che nella parola di Gesù sta scritto che un certo comportamento è sbagliato, se ho fede, lascio che qualcun altro prenda le misure della mia vita.

Questa è la prima questione. In principio quindi non sta la mia coscienza come soggettività assoluta ma la mia coscienza che si lascia interpellare e misurare dalla parola di Dio che chiama peccato certi pensieri, certe azioni e anche certe omissioni. Io posso esser d’accordo o no, aver capito tutto o qualcosa, però, con fede, mi metto umilmente davanti a questa parola.

Questo il motivo per cui ogni nostra confessione dovrebbe cominciare proprio da lì, anche in modo casuale, cioè prendere il Vangelo, aprire una pagina, leggerla e lasciarmi interrogare.

Se io ho una fede sufficiente per accogliere questa Parola quello è il mio esame di coscienza in quel momento lì.

La confessione parte da un atto di fede. Io non so se certe cose sono gravi o meno ma leggendo il Vangelo mi accorgo che mi vengono dette delle cose. Se io le raccolgo metto davanti a Dio la distanza tra me e quelle parole, la mia incoerenza. Questo è il primo passo, il primo grande punto di riferimento che parte solo dalla fede, diversamente tutto è vago, relativo. Anzitutto, quindi, c'è un "lasciarsi dire".

  1. Il secondo passo lo potremmo chiamare: la grazia della scoperta del “cuore

“Cuore” può sembrare un termine che immediatamente richiama una qualche romanticheria ma non è assolutamente questo il suo significato biblico. La parola “cuore” la troviamo disseminata centinaia di volte nell'Antico o nel Nuovo Testamento che, con questo termine, designa la misura ultima del valore della qualità di ogni uomo e di ogni donna.

La qualità di ciascuno sta nel cuore. Anche nel linguaggio banale quando vogliamo attestare la profondità e la completezza di qualcosa che facciamo o diciamo usiamo l’espressione: “questa cosa la faccio col cuore, o te la dico con il cuore” perché in questa espressione c’è un significato pregnante, tocca il punto più bello o più profondo del nostro modo di stare in questo mondo.

Cosa dice la Sacra Scrittura a questo proposito:

  • Salmo 39
    Sul rotolo del libro di me è scritto, 9 che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore». Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai.
    11Non ho nascosto la tua giustizia in fondo al cuore,
  • Salmo 40
    Io ho detto: «Pietà di me, Signore;
    risanami, contro di te ho peccato».
    6I nemici mi augurano il male:
    «Quando morirà e perirà il suo nome?».
    7Chi viene a visitarmi dice il falso,
    il suo cuore accumula malizia
    e uscito fuori sparla.

In questi e altri testi della Bibbia scopriamo che il cuore mantiene anche davanti a Dio una sua ambivalenza.

Anche nel Nuovo Testamento e in alcuni momenti pregnanti si ricorre all'espressione “cuore”

  • Lc. 1,65-66
    65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui.
  • Lc. 2, 19
    19Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.

Sono immagini belle piene di una grande tenerezza, non di romanticheria.

Ma, come dicevamo, nel cuore troviamo anche l'ambivalenza:

  • Giac. 3, 13-18: La vera e la falsa sapienza
    13Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza. 14Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. 15Non è questa la sapienza che viene dall'alto: è terrena, carnale, diabolica; 16poiché dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. 17La sapienza che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. 18Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.

Il cuore, luogo dell'ambivalenza, il cuore dice tutti desideri della vita, “lo desidero con tutto il mio cuore"

  • Dt. 4, 29
    Là servirete a dei fatti da mano d'uomo, dei di legno e di pietra, i quali non vedono, non mangiano, non odorano. 29Ma di là cercherai il Signore tuo Dio e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l'anima.
  1. Il cuore può essere sapiente o insipiente.
  2. Il cuore è il desiderio e il desiderio parte dei bisogni più radicali come la fame e la sete. E non è un caso che Gesù stesso quando si propone e deve dire la pienezza della sua presenza in mezzo a noi dice: “chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue non avrà la vita eterna”.
    Sappiamo bene che il cuore può avere dei desideri, delle inclinazioni negative che nella sua antica sapienza la Chiesa aveva indicato come vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia, che esprimono una esperienza mai sazia
  3. Una terza condizione che si manifesta nelle scelte è il cuore che si esprime come libertà.
    Io posso adattarmi a vivere in una certa condizione ma nel mio cuore posso essere da un'altra parte. La mia libertà è così grande che il mio cuore può fare altro. Lo dice anche la Bibbia quando Dio si lamenta “voi venite e offrite sacrifici ma il vostro cuore è lontano da me”.
    In altri casi la Bibbia ne parla sempre come antitesi al concetto di schiavitù.
    Si è veramente liberi se si è schiavi di Dio. Quando ci si libera da Dio si diventa schiavi dell'uomo (Rom. 6).

Dire il peccato come atto di fede, scoprire come è il nostro cuore - la sua grandezza, la sua pochezza - è un cammino che ciascuno di noi fa interiormente. Siamo alla radice della coscienza di sé.

Dire il peccato e scoprire il cuore diventano alla fine aspetti decisivi della propria umiltà di credenti e del nostro bisogno di misericordia.

Dire come è il nostro cuore, se abbiamo un cuore sapiente, pieno di desideri buoni o meno buoni, dire se il nostro cuore è libero o schiavo di qualcosa… queste sono le condizioni essenziali per potersi mettere davanti al perdono di Dio in maniera autentica.

Questo è il grande passo per recuperare in maniera vera e piena il senso del perdono cristiano dentro il segno sacramentale.

L'altro grande passo, ne parleremo la prossima volta, è quello di ritrovare la bellezza del sacramento del perdono come una esperienza non privata tra me e Dio ma come un’esperienza che passa attraverso l'incontro con la Chiesa e cioè con il ministro della confessione, il sacerdote.

 

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