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La Catechesi Adulti

L’incontro di Dio nella lotta

Esercizi Spirituali di Avvento 2016

Le preghiere di Giacobbe

mercoledì 23 novembre - 3° incontro – L’incontro di Dio nella lotta

(Genesi 32, 23-33)

[23] Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. [24] Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. [25] Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. [26] Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. [27] Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». [28] Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». [29] Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». [30] Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. [31] Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». [32] Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca. [33] Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.

Questa è una scena di lotta che invade quasi tutta la scena. Il brano che abbiamo letto segue immediatamente quello che abbiamo letto ieri sera e condivide sia lo scenario che il clima. Potremmo dire che è la continuazione del racconto e della preghiera di ieri.

Si avvicina una nuova notte, Giacobbe è angosciato e ha paura, Dio per lui non ha fatto nulla dopo che Giacobbe ha pregato, forse perché Giacobbe, dicevamo, gli ha lasciato poco spazio se non di accettare le sue richieste o di incontrarlo in un altro modo.

Dopo i primi due versetti in cui si racconta come Giacobbe fa passare tutti i suoi averi, con il versetto 25 Giacobbe rimane solo e rimane solo per tutto il resto del brano, però la notte termina con il versetto 32 quando si parla dell’alba. Quindi potremmo suddividere il brano con un’introduzione, e poi una conclusione che è fatta come nel primo testo che abbiamo visto di una presa di coscienza di Giacobbe di quanto è accaduto e del seguito.

Però è tutto molto collegato, siamo al guado dello Iabbok un affluente del Giordano e Giacobbe fa passare le mogli, i figli, i suoi beni e le schiave, come abbiamo visto. Spesso il guado dei fiumi indica il passaggio di un territorio, una frontiera è un confine. Questo guado da attraversare materializza la decisione di Giacobbe di tornare in patria. Quindi l’angoscia non è passata ma Giacobbe sembra voler dar credito alla parola di Dio, resta fisso nella decisione presa prima di quella grande confusione che abbiamo contemplato ieri.

È una buona regola della vita spirituale, nella desolazione non cambiare idea ma rimani nella decisione che hai preso quando hai capito bene qual era la volontà di Dio, quando hai sentito questa volontà buona per te.

Quindi Giacobbe fa passare tutto e poi sembra che di colpo venga sorpreso da uno. Come mai non è passato Giacobbe? Si intrattiene volontariamente, esita o forse è proprio colto di sorpresa? Ciò che è certo è che con questa esperienza che Giacobbe attraversa un’esperienza oscura. Non si capisce bene che cosa accade e anche noi dobbiamo entrare con Giacobbe in questa notte per poter comprendere, non capire con la testa ma comprendere col cuore, quanto sta accadendo e non possiamo, come Giacobbe, fare identificazioni troppo rapide, questa esperienza è un’esperienza opaca e il testo in ebraico è costruito in modo che non si capisca di chi si sta parlando.

La prima sera vi avevo invitato a prendere la penna e ad aggiungere una parola che mancava nella traduzione, questa sera io vi invito a prendere la penna e cancellare al versetto 27 “Quegli”.

In ebraico non c’è nessun soggetto, nessun pronome che possa fare riferimento a qualcosa, ma poi vi invito a cancellare sempre al versetto 27 il nome di Giacobbe. Quindi il versetto 27 diventa: “disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». rispose: «Non ti lascerò»”. Non si sa chi sta parlando, si può comprendere nella dinamica.

Partiamo entrando con Giacobbe in questa notte di lotta: al versetto 25, Giacobbe rimane solo e uno lotta con lui. Si trova impegnato in una lotta, viene utilizzato per indicare che il lottatore, il termine uomo, “ish” però “ish” in ebraico è una parola generica e quando viene utilizzata senza l’articolo determinativo sostituisce il pronome indefinito “uno”, qualcuno. Qui Giacobbe lotta con uno, con qualcuno, non si sa chi è, ha una forma umana e può essere chiamato uomo, però viene chiamato così solo all’inizio poi viene indicato semplicemente, perché c’è un verbo che esprime l’azione, non viene più indicato come soggetto.

Questo qualcuno lotta con Giacobbe. Il verbo lottare che viene utilizzato qui è un verbo che suona “abak” e che ha un’origine incerta, però probabilmente deriva da una parola, un sostantivo “abak” che significa polvere, però nello stesso tempo ha anche assonanza con un altro verbo “habak” che significa abbracciare e ha assonanza con il nome stesso di Giacobbe “Jacob” e con il nome del fiume “Iabbok”. Quindi l’immagine è qualcosa di inclusivo, è l’immagine di due corpi abbracciati che lottano sollevando polvere o immersi in una nebbia perché siamo in un fiume, e probabilmente è un ambiente umido, quindi è un’immagine di confusione.

Mentre i due stanno lottando, così abbracciati nella nebbia è difficile identificare chi fa che cosa, come dicevo prima, scompare il termine “ish”, il termine uomo, non si dice più, c’è solamente un verbo in terza persona che può andar bene tanto per Giacobbe quanto per questo misterioso lottatore.

Anche il nome di Giacobbe compare sempre meno e compare anche un po’ in ritardo, al versetto 26, “Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore”. Chi vede che non riesce a vincere, chi è l’uomo misterioso che non riesce a vincere Giacobbe, o è Giacobbe che vede che non riesce a vincere l’uomo misterioso? Solo andando avanti scopriamo che è l’articolazione del femore di Giacobbe ad essere colpita. “Mentre continuava a lottare con lui.

Tutto è volutamente indeterminato e in una interpretazione ebraica del “midrash”, questo uomo misterioso, questo altro misterioso viene identificato con Esaù. Quindi nella notte dell’angoscia di Giacobbe verrebbe anticipato il combattimento reale che Giacobbe teme. Ma in questo combattimento con l’altro si cela anche il combattimento con l’Altro con la a maiuscola. Non sarebbe la prima volta che Dio visita l’angoscia di Giacobbe e il suo desiderio per farne un’esperienza spirituale.

Questo altro interviene in due modi nella lotta, quindi per cercare di identificare chi è dobbiamo guardare cosa fa.

Ritorniamo al versetto 26, “Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore”. Abbiamo capito leggendo e andando avanti che è l’altro che colpisce Giacobbe, lo colpisce all’articolazione del femore, un termine che indica una zona del corpo, potremmo dire che è un colpo basso quello che viene dato a Giacobbe, che forse lo colpisce proprio nella virilità.

Però, nello stesso tempo, vedendo che non riusciva a vincerlo vuol dire che questo altro che vede che non riesce a vincere, sta perdendo ma con questo nuovo. Ristabilisce un’altra situazione, si inverte la situazione, Giacobbe ha un femore slogato, ha ricevuto un colpo basso, e quindi Giacobbe perde.

Siamo nell’oscurità e nell’acqua, questo ambiente riconduce Giacobbe alla sua preistoria, potremmo dire che lo conduce a quel combattimento primordiale che già nel ventre di Rebecca intratteneva col fratello, però qui è un altro che ha presa su di lui fino a slogarlo nell’intimo.

Giacobbe sta così rivisitando la sua storia fondatrice. Quella che non riusciva a raggiungere, quella che non riusciva a raggiungere per mettersi non solo in sincerità ma anche in verità davanti a Dio.

Questo che ha vinto, a un certo punto, o meglio uno dei due, dice “lasciami andare perché è spuntata l’aurora” e l’altro risponde “non ti lascerò se non mi avrai benedetto”. Chi parla? Andando avanti uno chiede “come ti chiami?” e la risposta è “Giacobbe”. Quindi riusciamo a identificare chi sta parlando, vorrei dire che questo altro che ha colpito Giacobbe a un certo punto dice “lasciami andare” ma se ha vinto perché dovrebbe mai chiedere di essere lasciato andare? E come può Giacobbe, se ormai ha perso, dire “no non ti lascio andare”? Significa allora che Giacobbe è riuscito a ristabilire la presa, vuol dire che Giacobbe sta vincendo nonostante abbia un’articolazione ormai compromessa.

Ma quando questo altro dice a Giacobbe “dimmi il tuo nome” e Giacobbe risponde dicendo effettivamente il suo nome, noi comprendiamo che Giacobbe si sta arrendendo.

Dire il proprio nome all’avversario vuol dire alzare le mani e arrendersi, perché il nome racchiude e identifica il segreto dell’uomo, identifica l’uomo stesso, ne racchiude l’identità più profonda. Consegnare il proprio nome ad un altro con cui si sta lottando, vuol dire mettersi nelle sue mani, consegnarsi a lui in tutta verità. Ma nello stesso momento, con la domanda “come ti chiami” che equivale alla domanda “chi sei” Giacobbe è riportato alla sua storia fondatrice, a quel momento in cui si era spacciato per Esaù davanti al padre cieco. Il padre gli aveva detto “chi sei?” E lui gli aveva risposto “io sono Esaù” e così era stato benedetto da suo padre, come Esaù. Ora finalmente Giacobbe dice il suo vero nome che, come dicevamo la prima sera, equivale ad imbroglione, riconosce quindi la sua storia di imbroglione e questo nome gli viene cambiato.

Dopo il colpo nell’intimo di Giacobbe, questo è il secondo colpo che viene messo a segno dall’altro. Questo cambio del nome è un tocco forse ancora più intimo del tocco nella virilità, questo cambio del nome rivela chi è l’avversario. Il cambio del nome è una prerogativa esclusivamente divina.

“Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele”. Cambiando il nome, Dio vuole riaffermare la sua supremazia su Giacobbe, però nello stesso tempo è costretto a constatare che Giacobbe ha vinto, cioè che Giacobbe è cambiato, che Giacobbe non è facilmente relegabile al suo posto, quindi cambiandogli il nome riconosce a Giacobbe la sua supremazia e la sua vittoria.

Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. Con gli uomini abbiamo visto Giacobbe combattere per il suo posto nel mondo, comprendiamo ora con questa spiegazione che colui contro il quale Giacobbe combatte è proprio Dio.

“Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse”. Qui siamo al versetto 30. A Giacobbe non basta il cambio del nome e il riconoscimento che ha vinto, Giacobbe chiede il nome del suo avversario e qui viene benedetto, cioè il suo avversario acconsente alla sua prima richiesta, non alla seconda. Giacobbe aveva detto “non ti lascerò se non mi avrai benedetto” (versetto 27) e ora viene benedetto. Dio quindi sancisce la benedizione rubata da Giacobbe, riconosce che Giacobbe è pienamente erede di quella benedizione. Comprendiamo quindi che Dio cerca uomini e donne dotati di desiderio, di astuzia, capaci di lottare, perseveranti nell’esistenza sebbene partiti male come Giacobbe.

Con la lotta, cui, Giacobbe non si è sottratto, con questa lotta nell’oscurità in un ambiente acquatico, in un guado e con la consegna di un nome nuovo all’alba, Dio ha portato Giacobbe a riconoscere la propria storia davanti a lui e l’ha recuperata all’origine. Per Giacobbe si tratta quindi di una nuova nascita, si tratta di rinascere davanti a Dio.

Al versetto 27 si parla di un’aurora e poi si parlerà di un sole che spunta (versetto 32). È il primo sole che spunta dopo la notte del sogno di Giacobbe. Se voi andate a leggere i capitoli in mezzo non c’è mai un’alba, non c’è mai un sole che spunta.

Alla fine Dio lascia la scena, scompare, non si capisce chi ha vinto. Giacobbe lascerà la scena zoppicando, però lascerà la scena come un uomo ricostituito da Dio, come un uomo ricostituito attraverso un nome nuovo che integra tutta la sua vita che viene benedetta così come è, però non riceve il nome del suo avversario. A quella domanda Dio non cede; è meglio cedere alla prima condizione, alla benedizione ma non dare il nome perché fosse a consentire di mettere il proprio nome nelle mani di Giacobbe è un po’ troppo persino per Dio, soprattutto vorrebbe dire togliere libertà.

Ma a Giacobbe non serve che gli venga detto il nome, capisce benissimo che cosa è accaduto.

Al versetto 31 Giacobbe rilegge l’esperienza che ha fatto, interpreta quell’esperienza come incontro con Dio, Giacobbe riconosce, dall’interno dell’esperienza, di avere incontrato Dio, riconosce la trasformazione che l’incontro con Dio porta. Rilegge questa esperienza come esperienza del faccia a faccia con Dio. Dice il versetto 31: “chiamò quel luogo Penuel, “faccia di Dio”. Il primo luogo si chiama Betel, “casa di Dio”, Macanaim, quello di ieri, “due accampamenti”, ed ora, “faccia di Dio”.

Al versetto 32 spunta il sole, Giacobbe lascia, passa Penuel.

Quel percorso spirituale iniziato a Betel nella notte, passato dallo sdoppiamento di Macanaim, ora si compie per Giacobbe nell’incontro col volto di Dio.

È un percorso che passa dal riconoscere il Signore presente nella propria vita, a casa, nel proprio desiderio perché il Signore l’ha messo nel cuore, all’esperienza della divisione interiore che mette in luce le connivenze con ciò che è altro rispetto al desiderio di Dio, per arrivare alla consolazione di chi lascia agire Dio e vede Dio presente e operante nella storia e non è più solo. Giacobbe ormai ha il nome di Dio nel nome.

Quando Giacobbe lascia la scena zoppica. L’incontro con Dio lascia un segno permanente nel fisico di Giacobbe, una cicatrice, un memoriale di quella lotta in cui Dio ha visitato ogni ambito della storia di Giacobbe per portarla a verità e benedirla. E quell’incontro trasforma Giacobbe lo libera dall’angoscia e dalla paura, e se ancora dividerà i beni, poco più avanti, Giacobbe saprà presentarsi per primo all’incontro con Esaù, senza più nascondersi dietro ai beni, e alle altre persone.

Ma soprattutto l’incontro con Dio, e questo avviene ancora oggi anche per noi nella preghiera, lascia una conoscenza di Dio che oltrepassa ciò che di lui si riesce a dire. Oltrepassa il catechismo, oltrepassa anche la teologia. L’incontro con Dio lascia la capacità di riconoscere Dio dove non ce lo si aspetterebbe.

Quando parlano di lui nei discorsi teologici e politicamente corretti, gli uomini, come dicevo il primo giorno, nella Bibbia, come nella vita, ne fanno un Dio che agisce dietro le quinte, un agente soprannaturale, provvidente e anche Giacobbe ha fatto così nella sua vita. Ne fanno un Dio che sistema le cose, un Dio garante della giustizia e del bene, organizzatore di trame perfette, un Dio a cui non sfugge nulla, un Dio tutto sommato prevedibile.

Ma una cosa è parlare di lui e un’altra è farne esperienza. Quando Dio decide di coinvolgersi in prima persona e di intervenire ravvicinatamente nella storia degli uomini, come ha fatto con Giacobbe, il Dio delle scritture non è per niente politicamente corretto, è un personaggio a tutto tondo fino ad essere animato da sentimenti veementi e contrastanti, fino a diventare, come abbiamo visto, ostile verso coloro che sceglie, perché vuole avere con loro una relazione esclusiva, una consegna piena, sincera, severa, vuole gente segnata dall’appartenenza a lui, battezzata nel suo spirito e nel suo fuoco, immersa totalmente nella morte e resurrezione del suo figlio.

Avventurarsi nel cammino della preghiera vuol dire questo: rischiare di incontrarlo. Rischiare di incontrarlo nel suo darci vita. Vuol dire provare a lottare con lui, trovarsi a lottare con lui per scoprire all’alba che quando lui vince questa lotta, quando lui vince le nostre resistenze, anche noi siamo vincitori. Al vincitore, dice il libro dell’Apocalisse: “darò una pietruzza bianca sulla quale sta scritto il nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve” (capitolo 2 versetto 17).

Al mio banco da scriba questo Dio è passato spesso e, lo ammetto, al Dio rassicurante dei teologi, io preferisco il lottatore, che non si dà pace, fino a che non mi ha conquistata tutta, dà addirittura la sua vita, cosa assolutamente politically incorrect. Lui attendo e sono certa che in questo Avvento e sempre Lui viene.

Stasera la grazia che vi propongo di chiedere, nel cui desiderio crescere, è la grazia di sentire che il Signore viene per donarmi la sua vita.