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ESSERE ANIMA

ESSERE ANIMA

ESERCIZI SPIRITUALI DI AVVENTO 2018

ESSERE ANIMA

Martedì 27 novembre - 2° incontro

Brano tratto dal libro “il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.

“La morte del Principe.

Luglio 1883

Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere, andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente, come i granellini si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione, questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o di introspezione: come un ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando tutto il resto tace; ed allora ci rendono sicuri che essi sono sempre stati lí, vigili, anche quando non li udivamo.

In tutti gli altri momenti gli era sempre bastato un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua mente e lo lasciavano per sempre. La sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun malessere. Anzi, questa percettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione, per così dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interni, essa non era per nulla sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio vago del riedificarsi altrove di una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga. Quei granellini sabbia non andavano perduti, scomparivano ma si accumulavano chissà dove, per cementare una mole più dura tura. Mole, però, aveva riflettuto, non era la parola esatta, pesante come era; e granelli di sabbia, d’altronde, neppure. Erano più come delle particelle di vapor acqueo che esalassero da uno stagno costretto, per andar su nel cielo a formare le grandi nubi leggere e libere. Talvolta era sorpreso che il serbatoio vitale potesse ancora conte nere qualcosa dopo tanti anni di perdite. “Neppure se fosse grande come una piramide.” Tal altra volta, più spesso, si era inorgoglito di esser quasi solo ad avvertire questa fuga continua, mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato anziano disprezza il coscritto che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste son cose che, non si sa poi perché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a lui le aveva intuite mai, nessuna delle figlie che sognavano un oltretomba identico a questa vita, completo di tutto, di magistratura, cuochi e conventi; non Stella che, divorata dalla cancrena del diabete, si era tuttavia aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi aveva per un attimo compreso, quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione, corteggi la morte.” Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo “si,” la fuga decisa, lo scompartimento del treno riservato.

Perché adesso la faccenda era differente, del tutto di versa. Seduto su una poltrona, le gambe lunghissime avviluppate in una coperta, sul balcone dell’albergo Trinacria, sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un lunedì di fine luglio, ed il mare di Palermo, compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava li sopra piantato a gambe larghe, e Io frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui.

Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. Il tramestio del porto alla par tenza e quello dell’arrivo a Napoli, l’odore acre della cabina, il vocio incessante di quella città paranoica, lo avevano esasperato di quella esasperazione querula dei debolissimi, che li stanca e li prostra, che suscita l’esaspera zione opposta dei buoni cristiani che hanno molti anni di vita nelle bisacce. Aveva preteso di ritornare per via di terra: decisione improvvisa che il medico aveva cercato di combattere; ma lui aveva insistito, e così imponente era ancora l’ombra del suo prestigio che l’aveva spuntata. Col risultato di dover poi rimanere trentasei ore rintanato in una scatola rovente, soffocato dal fumo nelle gallerie che si ripetevano come sogni febbrili, accecato dal sole nei tratti scoperti, espliciti come tristi realtà, umiliato dai cento bassi servizi che aveva dovuto richiedere al nipote spaurito. Si attraversavano paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide; quei panorami calabresi e basilischi che a lui sembravano barbarici, mentre di fatto erano tali e quali quelli siciliani. La linea ferro-viaria non era ancora compiuta: nel suo ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso plaghe lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace sorriso dello Stretto subito sbugiardato dalle riarse colline peloritane, di nuovo una svolta, lunga come una crudele mora procedurale. Si era discesi a Catania, ci si era arrampicati verso Castrogiovanni: la locomotiva annaspante su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo. All’arrivo le solite maschere di familiari con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. Fu anzi dal sor riso consolatorio delle persone che lo aspettavano alla sta zione, dal loro finto, e mal finto, aspetto rallegrato, che gli si rivelò il vero senso della diagnosi di Sémmola che a lui stesso aveva detto soltanto frasi rassicuranti; e fu allora, dopo esser sceso dal treno, mentre abbracciava la nuora sepolta nelle gramaglie di vedova, i figli che mostravano i loro denti nei sorrisi, Tancredi con i suoi occhi timorosi, Angelica con la seta del corpetto ben tesa dai seni maturi, fu allora che si fece udire il fragore della cascata.

Probabilmente svenne, perché non ricordava come fosse arrivato alla vettura; si trovò disteso con le gambe rattrappite, col solo Tancredi vicino. La carrozza non si era ancora mossa, e da fuori gli giungeva all’orecchio il parlottare dei familiari. “Non è niente.” “Il viaggio è stato troppo lungo.” “Con questo caldo sveniremmo tutti.” “Arrivare sino alla villa lo stancherebbe troppo.” Era di nuovo perfettamente lucido: notava la conversazione seria che si svolgeva fra Concetta e Francesco Paolo, l’eleganza di Tancredi, il suo vestito a quadretti marrone e bigio, la bombetta bruna; e notò anche come il sorriso del nipote non fosse una volta tanto beffardo, anzi tinto di malinconico affetto; e da questo ricevette la sensazione agrodolce che il nipote gli volesse bene ed anche che sapesse che lui era spacciato, dato che la perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza. La carrozza si mosse e svoltò sulla destra. “Ma dove andiamo, Tancredi?” La propria voce lo sorprese. Vi avvertiva il riflesso del rombo interiore. “Zione, andiamo all’albergo Trinacria; sei stanco e la villa è lontana; ti riposerai una notte e do mani tornerai a casa. Non ti sembra giusto?” “Ma allora andiamo alla nostra casa di mare; è ancora più vicina.” Questo però non era possibile: la casa non era montata, come ben sapeva; serviva solo per occasionali colazioni in faccia al mare; non vi era neppure un letto. “All’albergo starai meglio, zio; avrai tutte le comodità.” Lo trattavano come un neonato; di un neonato del resto aveva appunto il vigore.

Un medico fu la prima comodità che trovò all’albergo; era stato fatto chiamare in fretta, forse durante la sua sincope. Ma non era il dottor Cataliotti, quello che sempre lo curava, incravattato di bianco sotto il volto sorridente e i ricchi occhiali d’oro; era un povero diavolo, il medico

di quel quartiere angustiato, il testimonio impotente di mille agonie miserabili. Al di sopra della redingote sdrucita si allungava il povero volto emaciato irto di peli bianchi, un volto disilluso di intellettuale famelico; quando estrasse dal taschino l’orologio senza catena si videro le macchie di verderame che avevano trapassato la doratura

posticcia. Anche lui era un povero otre che lo sdrucío della mulattiera aveva liso, e che spandeva senza saperlo le ultime gocce di olio. Misurò i battiti del polso, prescrisse delle gocce di canfora, mostrò i denti cariati in un sorriso che voleva essere rassicurante e che invece chiedeva pietà; se ne andò a passi felpati.

Presto dalla farmacia vicina giunsero le gocce; gli fecero bene; si senti un po’ meno debole, ma l’impeto del tempo che gli sfuggiva non diminuì la propria foga.

Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guance infossate, la barba lunga di tre giorni: sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano nelle vignette di Verne, che per Natale regalava a Fabrizietto. Un Gattopardo in pessima forma. Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia? Perché a tutti succede così: si muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso imbrattato; anche Paolo, quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani?”

LETTURA BREVE

Lc. 9, 23-26
23Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. 
24Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. 25Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina sé stesso?
26Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell'uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi.

Nella lettura che avete appena ascoltato, troviamo, come ieri sera, nuovamente una persona che si guarda allo specchio, ma in una situazione del tutto differente. Non si tratta di una persona semplice come Teresa, ma di un principe, il principe di Salina il cosiddetto Gattopardo, un principe siciliano, possidente terriero che vede la fine dell’aristocrazia dovuta ai movimenti di risorgimento in vista dell’unità d’Italia, un ideale che ormai sta conquistando sempre più seguaci. Il principe si troverà costretto ad aderire in qualche modo e adeguarsi a questo movimento di rivoluzione, cosciente che la situazione della sua illustre famiglia andrà comunque peggiorando: egli si trova inesorabilmente di fronte alla decadenza della sua stirpe e dei suoi possedimenti, della sua Sicilia e insieme della sua stessa persona. Il principe, che era stato un bell’uomo, con una vita da donnaiolo, alla fine si trova a dover fare i patti con lo scorrere del tempo. Ciò che lo specchio gli rilancia è senza pietà: egli si vede come felino senza più vigore, un gattopardo spelacchiato. Ma la cosa più intrigante e pietosa, più delicata e commovente del brano che vi ho proposto, è quanto si descrive circa il passaggio del tempo: il venire meno delle energie vitali, paragonate ai granelli di sabbia che scendono da una clessidra o al vapore acqueo che, dissolvendosi, va in cielo a formare le nuvole. Il Gattopardo è profondamente cosciente di sé e della sua fine e la sua grandezza, nonostante tutti gli errori compiuti, riesce a rilucere anche in una situazione così greve.

A partire da questa pagina letteraria tanto sublime, così come tutte le volte che ci troviamo di fronte al fatto della morte, dobbiamo chiederci: che cosa è l’anima? Se in qualche modo non rispondiamo a questo interrogativo rischiamo di trovare solo una semplice ma quanto mai tragica risposta: il vuoto. Che cosa è l’anima? Che cosa significa essere anima?

Quando il Figlio di Dio si è fatto uomo, egli ha deciso di avere o meglio di essere un corpo, un corpo animato, nel quale c’è un respiro vitale che non è un respiro qualsiasi, ma è il respiro stesso di Dio; quel respiro che ha dato vita a tutta la creazione, che l’ha animata e continua a rianimarla e sostenerla.

Per capire che cosa è l’anima andiamo per prima cosa a cercare l’etimologia di questo termine e troviamo che viene dal greco, anemos; ma questo non ci aiuta tantissimo dal momento che il greco anemos significa vento, respiro, qualcosa di evanescente che è capace comunque di farsi notare e di mostrarsi attraverso i cambiamenti che mette in atto. I latini e dopo di loro i medioevali distinguevano tra “anima” (che è l’aspetto più immateriale, personale e immortale, per cui lo stesso Socrate decise di bere la famosa cicuta per mostrare come siamo abitati da un elemento di immortalità) e “animus” che è invece quell’elemento assolutamente personale che dice una trascendenza, un rapporto tra il creatore e la sua creatura. L’animus è dunque molto più affine a quanto denominiamo come “spirito umano” nel quale abita e si mostra, però, lo stesso Spirito divino. Nella cultura contemporanea si fa fatica ad utilizzare questi termini anche se la dottrina della Chiesa ci chiede di mantenerli. Oggi, però, è sempre più difficile usare la parola anima perché, come già accennato, la scienza sembra sempre più sottrarre spazio alla sfera spirituale umana offrendo spiegazioni spesso deterministiche circa il funzionamento fisio-biologico dell’essere umano e dei suoi meccanismi profondi. Nonostante questo, io credo che, anche di fronte ad una barriera culturale come questa, ad un limite di spazio che si fa sempre più stretto, l’anima abbia comunque il potere di manifestarsi, di venire alla superficie e di farsi sentire, così come, per richiamare alla memoria le parole di Kundera, un equipaggio esce dalla stiva della nave per salire sul ponte.

Come l’anima allora riesce a farsi sentire? Forse questa stessa situazione di limite ci può illuminare a tal punto che sono tentato di proclamare quasi un assioma circa le potenzialità inattese della dinamica del limite stesso: il limite è sorgente dell’anima. In che senso?

Guardiamo innanzitutto all’esperienza primordiale che ognuno di noi fa, quella del bambino quando si trova nella pancia della madre. La pancia della madre limita il bambino perché non gli permette di muoversi come vorrebbe e potrebbe: questo limite, però, lo custodisce e, anzi, gli permette di esistere, gli permette di non finire nel “nulla”. Il bambino ha bisogno di uno spazio circoscritto che ne custodisce la vita e la fa crescere.

Il limite è qualche cosa che ci priva di alcune potenzialità ma, allo stesso tempo, ci garantisce, ci cura, ci custodisce. Senza un limite non avremmo mai la coscienza di noi stessi perché è proprio scontrandoci, tirando calci alla pancia della mamma che impariamo a sentire tanto il corpo della madre quanto il nostro. Senza questo incontro-scontro, che appunto è il limite, non vi è la possibilità per l’anima di venire a galla. Parallelamente, anche la coscienza di sé, la dimensione più spirituale e più intima dell’uomo, ha bisogno di scontrarsi con il limite naturale. E’ proprio il limite naturale che, ultimamente, permette all’uomo di tirar fuori tutte le sue potenzialità. Se ci pensate bene, si tratta di una situazione simile a quella degli artisti, i quali, posti di fronte alla durezza e all’inerzia della materia che sembra non lasciarsi plasmare, trovano spazio e modo di dar vita ad un’idea che essi portano in sé e che gli fa intravedere nella materia stessa potenzialità insperate per dar vita ad esempio a un disegno o a una statua. Senza la durezza della pietra, senza la resistenza della pietra non ci sarebbe neanche il gesto dinamico e pieno di creatività dell’artista che, secondo l’affermazione dello stesso Michelangelo, tira fuori dal blocco di marmo quanto già vi ci abita. Ci vuole la resistenza della materia perché l’idea possa prendere forma.

Tutta la nostra vita è segnata dal limite anche nella sua fase evolutiva. Quando diventiamo grandi, se non abbiamo dei genitori che ci insegnano l’importanza dei e l’importanza dei no, cresciamo senza reale coscienza di noi stessi. Ho notato più volte come che i genitori migliori siano quelli che sono molto bravi a insegnare i no non in senso punitivo, ma in senso propriamente “educativo”; cioè, dicono dei no per “tirar fuori” (educere in latino) i loro figli da una situazione di pericolo o di puro egoismo che è poi, forse, la condizione più naturale di ciascuno di noi. Infatti, nasciamo pieni di bisogni e con il desiderio di soddisfare questi bisogni ma dobbiamo imparare fin da piccoli che non tutto ciò che sentiamo può essere soddisfatto. Perciò alcuni no sono essenziali per creare in noi quello spazio che sarà poi abitato dall’altro. Senza i no non saremmo mai capaci di diventare enpatici, cioè capaci di farci abitare dalla presenza dell’altro, di abitare fianco a fianco con l’altro. Pensate a che cos’è l’esperienza della fraternità, della vita fraterna: è anzitutto dividere l’attenzione dei genitori. I fratelli, oltre a essere un’opportunità, sono anche un grande limite perché senza il fratello avresti doni e attenzioni solo per te; e invece il limite che si identifica con il fratello stesso ci insegna in qualche modo a fermarci, a far spazio agli altri. Senza il limite l’intera società rischierebbe di non sussistere perché sarebbe piena solo di gente egoista, incapace di dividere le attenzioni con gli altri. L’esperienza di fraternità, per gradi differenti, dai famigliari fino alla fraternità umana è un’esperienza ricca e fondamentale per ciascuno di noi. Anche la convivenza civile, tanto con i connazionali quanto con persone di culture e di religioni differenti, è una grandissima palestra in questo senso: non solo una palestra di pace sociale, ma una palestra per il nostro cuore, che ci insegna ad allargare gli orizzonti della mente e del cuore e a non dipendere esclusivamente dai bisogni immediati.

In un’immagine che possa simboleggiare quella che ho chiamato la dinamica del limite: c’è un di più che sorge in noi e che si manifesta proprio quando ci troviamo di fronte un muro: ti viene voglia di scavalcarlo ma allo stesso tempo diventi cosciente delle tue reali possibilità capacità, se hai, cioè, la forza di scavalcarlo o se scavalcarlo diventa un pericolo per te (e eventualmente per gli altri!) e rischi così di sfracellarti. Ma senza questa barriera non emergerebbe la potenzialità dell’anima in tutta la sua forza e in tutte le sue dimensioni spirituali.

L’anima oltre a vedere il muro, oltre a sentire quel limite è però anche potenzialità di oltrepassarlo: è quella forza che ti permette di scavalcarlo, questo muro! Ad esempio, nell’esperienza dell’innamoramento è interessante come l’anima si manifesti: essa è esperienza di fusione. Quando uno si innamora, prima della fusione dei corpi già vive l’esperienza della fusione delle anime. Certo questa esperienza può essere dovuta a un’idea romantica dell’altro, a uno stereotipo, piuttosto che a un’idealizzazione di fondo. Tuttavia, è indubitabile che, quando c’è l’amore vero, i due interpreti di questo sentimento spesso si esprimono come se ciascuno di loro sentisse i sentimenti dell’altro, come se vivesse la vita dell’altro. Certo poi l’amore ha tante stagioni, tante evoluzioni; la fase dell’innamoramento non sempre accompagna tutte le fasi dell’amore, però quando si impara a sentire con il cuore dell’altro, oltre che a sentire l’altro, è segno che l’anima esiste e che non segue soltanto i movimenti e i tempi del corpo, che non dipende soltanto dall’unirsi dei corpi. Così, quando anche anima e corpo si fondono insieme si arriva davvero all’apice mistico esperienza umana.

Dunque, l’anima si manifesta di fronte ad un ostacolo ma si rivela anche come potenzialità di oltrepassare tale ostacolo. Questa sera abbiamo ascoltato dalle pagine del Gattopardo che c’è un limite che sembra insormontabile, l’ostacolo per eccellenza, per definizione: la morte. Lo sguardo del narratore è molto disincantato, è uno sguardo quasi pessimistico di fronte al cedere delle cose, alla decadenza che ormai ha paradossalmente “messo in moto” tutta la vicenda del Gattopardo, della sua famiglia e dei suoi vicini. Dal punto di vista propriamente cristiano la morte può essere vista come tragedia ma allo stesso tempo come quel limite che sa far scaturire l’anima e stimolarla in tutte le sue potenzialità.

Prima di arrivare alle pagine del Vangelo propongo brevemente di riflettere su altre tre figure letterarie: Faust che viene tentato da Mefistofele e che vende la sua anima per avere tutte le conoscenze a sua disposizione, per fare tutte le esperienze possibili; la sua è la dimensione della mancanza del limite per eccellenza. Non dandosi più limiti, egli finisce per perde la sua anima, la dona al demonio che lo sta tentando. La seconda figura è quella del vampiro, di Dracula, il dannato per eccellenza perché è uno che vive eternamente, è costretto a vivere in questo mondo senza una fine, e cioè, nuovamente senza un limite. Anche oggi vediamo in televisione certe serie americane che hanno come protagonista il vampiro. Il vampiro riesce a unire l’erotismo, il sentimento d’amore, e la violenza come se fossero la stessa cosa; è un amore che è il contrario di quello che dicevamo ieri, che non rappresenta, cioè, il godere e il celebrare la vita. È, piuttosto, succhiar via la vita dall’altro, è rendere l’altro tuo oggetto, anche se lo ami, perché tu possa ad ogni modo continuare a permanere per sempre. Una vita che non ha un limite è una vita dannata: è una vita che ha bisogno di distruggere l’altro per sussistere. Qui c’è un amore tragico e perennemente irrisolto, mascherato sotto le sembianze inaudite della violenza, ma soprattutto c’è una radice di violenza che, viceversa, si è mascherata d’amore.

Il terzo personaggio è Peter Pan. Siamo abituati a trattarlo come materiale immaginifico e innocuo per bambini ma originariamente, nella pièce teatrale in cui fece la sua prima apparizione, era stato concepito dall’autore come un personaggio avente alcuni tratti demoniaci. Anche nel racconto che conosciamo però ci sono alcuni indizi di questa sua natura ambigua: Peter Pan perde la sua ombra. Ma che cos’è l’ombra se non il proprio limite posto in evidenza dalla luce? Non è forse il “contorno” della persona che ci richiama costantemente il fatto che abbiamo una consistenza e un limite? L’ombra non è forse anche il segno del passare del tempo che si proietta sul pavimento a seconda della posizione del sole e quindi del volgersi della giornata? Peter Pan perde la sua ombra, perché in fondo vuole restare bambino per sempre e, con questo, rimane egoista per sempre, bravo a burlarsi degli altri e a fare scherzi ma incapace di creare relazioni durature di pura assistenza e di amore.

Queste tre vicende letterarie si assomigliano molto in fondo, e tra tutte si staglia quella di Faust che condanna la sua anima alla dannazione propriamente quando chiede a Mefistofele di fermare l’attimo, di fermare cioè il tempo. Queste tre figure sono tutte legate da una simile dimensione: sono dannate perché non accettano di avere un fine, non hanno un termine né un tempo da riempire e da vivere. Chi ha una fine verso cui andare, sente il bisogno e il dovere di animare ogni momento della sua vita; sente, cioè, il dovere, il bisogno e la gioia di dare un senso ad ogni momento della sua esistenza.

Veniamo al Vangelo che vi ho proposto: nella traduzione attuale si dice “chi non salva sé stesso”. In quella precedente si diceva “chi non salva la propria anima” e si usava propriamente la parola greca che traduciamo solitamente con anima, psyche. Il significato del passaggio evangelico è più o meno questo: se perdi la tua vita, se perdi il tempo e perdi la coscienza dell’urgenza di questo tempo, finisci per perdere anche te stesso! Le cose importanti di oggi e che non puoi farle domani, falle adesso oggi. Se hai litigato con qualcuno, non aspettare un domani generico e neanche il Natale: comincia oggi a costruire le condizioni per chiedere perdono e per riconciliarti pienamente con le persone con cui hai lottato, soprattutto se esse sono parte della tua famiglia: Se non hai mai detto le parole che contano a tua moglie o a tuo marito cerca di dirle oggi perché la vita va vissuta fino in fondo adesso non domani: lo sappiamo, domani sarà migliore se saprai rendere l’oggi migliore.

In sintesi, il limite, che la morte radicalmente è, si manifesta anche come qualcosa che ci pone di fronte proprio sbarrandoci la strada una possibilità: quella di diventare sorgente di un modo di vivere nuovo e persino di una vita nuova, migliore, animata. D’altra parte, non c’è vita eterna senza una vita rinnovata!

Contempliamo ancora, come abbiamo fatto ieri, Gesù. La grandezza di Gesù non è semplicemente quella di aver offerto un corpo che sana, celebra e si dona, ma è anche la grandezza di colui che ha saputo rianimare una situazione, la situazione di crisi in persone semplici, la situazione di crisi nelle famiglie che ha incontrato, la situazione di crisi di un popolo intero.

Concludo con un’altra immagine tratta dalla storia dell’arte. Un famoso pittore francese, Georges Rouault, aveva una vera passione per due figure che forse sentiva molto affini e che amava dipingere spesso: la figura del Cristo e quella del pagliaccio. Il pagliaccio è, se ci pensiamo bene, una figura Cristica, non in senso negativo, per prendere cioè in giro la fede evangelica; tutt’altro! Il pagliaccio non fa altro che prendere su di sé il dramma degli altri, ripresentarlo sotto nuove forme e in maniera ridicola, per permettere così al prossimo di sorridere di se stesso e dei propri limiti, di togliersi di dosso il peso dell’esistenza e degli sbagli che in qualche modo egli o ella ha commesso. Abbiamo tanto bisogno di persone così! Di persone che funzionino nella società come una sorta di termometro sociale: nella nostra famiglia, nelle comunità cristiane e nello spazio civile; che capiscano, cioè, quale cambiamento e rinnovamento, anche attraverso un sorriso, una battuta fatta con gusto, con intelligenza, quale nuova linfa vitale si possa instillare in situazioni incancrenite, di tristezza, di decadenza e di conflitto. Abbiamo bisogno di santi pagliacci, così come Francesco amava rappresentarsi; lui, il folle di Dio! Folle non semplicemente perché innamorato dell’amore assoluto, ma anche perché, con le sue parole, i suoi gesti e i suoi canti ha saputo generare amore in molti, vincendo gli odi e trasformando, così, il clima sociale nel quale si trovava a vivere e ad attraversare.

A conclusione di questa riflessione facciamoci allora queste domande:

  • Sono capace di godere ogni momento della mia vita, di dare un senso al mio tempo?
  • Qual è il rapporto profondo che ho nel mio cuore con l’idea della morte: è soltanto un limite che uccide le mie possibilità di vita o è un limite che dà senso e valore aggiunto ad ogni momento che sto vivendo?
  • Sono capace di misurare, di essere come il termometro della situazione di vita almeno delle persone a me più vicine?
  • Sono capace di ridicolizzarmi purché l’altro che si trova nel bisogno sia felice?