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Quaresima 2016

Rilanciare la Relazione

Rilanciare la Relazione

Vangelo di Marco (Mc 5, 1-20)
1Giunsero all'altra riva del mare, nel paese dei Gerasèni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: "Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!". 8Gli diceva infatti: "Esci, spirito impuro, da quest'uomo!". 9E gli domandò: "Qual è il tuo nome?". "Il mio nome è Legione - gli rispose - perché siamo in molti". 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C'era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: "Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi". 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare.
14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio.
18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: "Va' nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te". 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati. 

1’ PARTE – APPROFONDIMENTO BRANO EVANGELICO

Questa pericope del vangelo secondo Marco ci racconta una guarigione operata da Gesù in un territorio esterno a Israele. Il brano è preceduto dalla cosiddetta «sezione delle parabole» (4,1-34) attraverso le quali Gesù annuncia il Regno di Dio; l'episodio sul quale ci soffermeremo questa sera costituisce, insieme ad altri 3 racconti di miracoli/guarigioni1, la «sezione dei miracoli» (4,35-5,43), i quali quindi costituiscono una conferma del discorso precedente, in quanto le guarigioni e i miracoli operati da Gesù sono le azioni concrete attraverso le quali il Regno annunciato nelle parabole sta avvenendo. Il regno di Dio si manifesta proprio là dove avvengono gesti di liberazione dal male. In questi episodi di guarigione si manifesta la fede nella potenza di Gesù che raggiunge una persona (un uomo, una donna, una ragazza) nella sua personale situazione. Così agisce Dio.

Veniamo quindi al nostro testo. Gesù giunge in questa città della Decapoli, la quale era una federazione di città ellenistiche della Transgiordania, quindi si trova in territorio cosiddetto «pagano», al di fuori della terra di Israele. L'evangelista Marco identifica questa città con Gerasa, la quale si trovava a due giorni di cammino dal lago di Tiberiade.

Gesù quindi giunge in questa città e il testo dice che «gli venne incontro un uomo».

1. Chi è questo uomo

Non ci viene detto immediatamente il nome dell'uomo, ma la sua provenienza e la sua condizione di sofferenza.

Marco descrive in modo particolareggiato le condizioni di quest'uomo sofferente. Capiamo dalla descrizione che si tratta di un uomo inquietante: dimora nei sepolcri, luogo impuro dove le relazioni sono impossibili, quindi vive un'esistenza segregata; è un uomo che grida: il suo grido dice un affanno, un’angoscia, una paura, una rabbia; è un uomo che si sta rovinando, si sta danneggiando; si trova in una situazione di morte e le sue azioni raccontano un desiderio di autodistruzione. E' quindi un uomo chiuso nella sua malattia, egli stesso si chiude e le altre persone contribuiscono a questa condizione di chiusura. E' un uomo che ci appare sconnesso, non padrone di sé, anzi nemico di sé (si percuote con pietre).

Qui si mostra quindi in tutta la sua verità il dramma dell’uomo lontano da Dio. E’ un corpo che ci consegna una domanda: dov’è l’umanità di questo uomo? Qui l’uomo, fatto per la comunione, il corpo, fatto per l’incontro, è abbandonato a se stesso, conosce il dramma della solitudine.

2. Come si relazionano con lui

Che cosa hanno tentato di fare nei confronti di quell’uomo? Lo hanno legato perché era pericoloso, per se stesso e per loro. Hanno tentato con ceppi e catene, ma lui è stato più forte di tutti questi legami; hanno cercato di bloccarlo, ma niente lo ha domato, niente lo ha fermato. Ha spezzato le catene e ha infranto i ceppi e il grido è l'unico legame relazionale con la vita sociale. Un'umanità così scomposta fa paura, ma resta una presenza minacciosa anche se la si lega o la si rinchiude. Poiché fa paura, lo rinchiudo e non ci penso più; così equivale a eliminarlo dalla mia vita e per me non vale più nulla, perché «una vita vale nella misura in cui la considero importante»2.

3. Come si relaziona Gesù

Quest’uomo così descritto, paradossalmente, corre incontro a Gesù e gli pone una domanda che suona in questi termini: «Che cosa a me e a te?», che equivale a dire: che cosa vuoi dalla mia vita? Cosa c'entri con me? Che hai a che fare con me? Poi l'uomo scongiura Gesù di non tormentarlo. Proviamo a immaginare la scena: avendolo visto da lontano, corre da Gesù, gli si inginocchia davanti e gli dice “lasciami stare”; sta chiedendo con la parola l’opposto di quello che manifesta con il corpo e che realmente desidera. E' evidente qui un profondo conflitto, di chi anela in profondità alla relazione ma contemporaneamente la rifugge perché non riesce a sostenerla. Stabilisce a modo suo un contatto, perché ne ha disperatamente bisogno. E in questo ci consegna un interrogativo importante: sappiamo noi leggere, interpretare le richieste di aiuto implicite? E, ugualmente, siamo consapevoli che il nostro corpo parla molto di più delle nostre parole?

Gesù entra nell'abisso di questa umanità ferita e le fa compiere un esodo. Se le persone appartenenti alla sua comunità hanno cercato di dominarlo, di fermarlo, di controllare i suoi eccessi, Gesù capovolge la prospettiva, perché libera quest'uomo, non lo chiude. Non è chiudendolo che lo salvi, che lo guarisci, che lo liberi dalla sua malattia, ma è liberandolo dal potere del male che lo domina. Qui il testo ci provoca ad «avere il coraggio di aprire le tombe, con il rischio di trovare ossa di morti, ma con il desiderio di restituire gioia e speranza»4.

Come concretamente Gesù fa questo? Pone a quest'uomo una domanda: «Qual è il tuo nome?». Questa è l’unica domanda in grado di guarire davvero. L’uomo delle tombe risponde che il suo nome è «legione»; questa parola viene dal verbo latino legio, che significa «raccogliere insieme» e veniva utilizzata nel linguaggio militare per indicare una schiera di soldati ben organizzata. La legione era un modello di grande efficienza bellica, molto ben organizzato. Quest’uomo quindi è una personalità frammentata, è abitato da una moltitudine di Sé differenti, ciascuno dei quali aveva il suo ruolo. Ci viene qui data l’idea della spersonalizzazione perché c’è una molteplicità che non restituisce l’unicità della persona.

Quindi Gesù, chiedendo «qual è il tuo nome?», fa emergere questa frammentazione e vediamo nel racconto che la vera guarigione passa da una riscoperta dell'identità. Gesù infatti gli chiede il nome per far emergere da questa molteplicità la sua singolarità.

Nel descrivere il gesto di liberazione operato da Gesù, viene utilizzato un verbo all'imperfetto (elegen), per dire la continuità dell'azione, per dirci che Gesù è già all’opera per liberarlo dal male, che tutte le sue azioni, i gesti, gli sguardi, le parole, sono finalizzati a questo, in un processo che richiede del tempo, non è immediato. Gesù perde del tempo. Si mette prima di tutto in ascolto della sofferenza di quest’uomo e inizia semplicemente trattandolo come persona; non lo considera meno uomo degli altri, non ne ha paura perché sa vedere che in lui c’è l’umanità anche se immediatamente non visibile. Gesù sente la sua vulnerabilità e anche la sua dignità, si lascia attraversare dalla sofferenza di quest’uomo e se ne prende cura facendogli ritrovare se stesso, la sua autenticità. 

4. Effetti dell’azione di Gesù

Ma - c’è un ma - facendo questo, Gesù procura un grave danno economico alla comunità. La legione va a finire nella mandria di porci, che si precipita dalla rupe nel mare. Il fatto che siano porci può richiamare l'idea di impurità, in quanto secondo la tradizione biblica si tratta di animali impuri5. Qui ci viene comunicato un messaggio fortissimo: riconoscere a ciascuno la sua dignità di uomo, donna, richiede che qualcuno se ne faccia carico. Porsi accanto per ritrovare l’umanità perduta chiede di stare in una tensione, cioè permettere che il male venga fuori perché l'umanità sia liberata. Portare un uomo alla sua dimensione umana è un'azione di prossimità che richiede un grande dispendio di energie e può anche sconvolgere equilibri assodati. Quindi questa guarigione ci consegna un bruciante quesito: sappiamo assumere il cambiamento che la prossimità verso l’altro ci impone?

Di quest'uomo guarito ci vengono date 3 informazioni:

  • seduto: è capace di autocontrollo
  • è vestito: un uomo nudo è esposto a ogni possibile strumentalizzazione e asservimento; il vestito è protezione e racconta il nostro modo di abitare il mondo e di vivere le relazioni; si può dire che quest’uomo è ritornato nel mondo e ridivenuto capace di relazione;
  • è sano di mente: non ha più tensioni autodistruttive;

Perciò la guarigione consiste nel ritrovamento della relazione con se stesso e della capacità relazionale.

Mi colpisce la reazione della gente che lo vede in queste condizioni; sembra che lo vedano per la prima volta. E da un certo punto di vista è così: queste persone finalmente vedono l'uomo che la sofferenza della malattia aveva nascosto, aveva offuscato; riescono finalmente a vedere una umanità liberata.

Ma questo suscita in loro paura. Dobbiamo lasciarci profondamente interrogare da questa paura. Perché hanno paura? Fa paura questo gesto di liberazione; fa paura che un uomo schiavo del male possa esserne liberato, perché la tendenza è quella di stigmatizzare, pertanto un uomo segnato dal male lo sarà per sempre. Gli uomini e le donne emettono giudizi di condanna che il Dio di Gesù non ha mai emesso in questi termini. E perché questo avviene? Perché è difficile per noi vedere in ogni persona la sua umanità profonda. Spesso chi ci appare davanti è un'umanità talmente segnata dalla sofferenza che ne risulta sfigurata, è un'umanità che non riesco a sentire mia prossima, una persona che non può essere simile a me, perché non la riconosco. E al tempo stesso ho paura che in qualche modo mi “contagi”. Per questo è così difficile superare il pregiudizio. Ci convinciamo talmente bene che quella persona non è simile a noi, che non ci passa minimamente per la testa che forse incrocia il nostro cammino perché noi ci facciamo compagni e compagne di strada per portare la sua umanità in piena luce.

L'uomo guarito chiede di stare con Gesù (viene utilizzato il verbo della sequela, lo stesso dei discepoli), ma Gesù gli chiede di dimorare con la sua comunità e la sua famiglia. Questo costituisce una conferma della guarigione: gli viene chiesto di imparare a vivere proprio con quelle persone dalle quali egli in origine è fuggito, spingendosi fino alla soglia della morte. Gesù quindi lascia un testimone che annuncia la sua vita salvata, proprio a partire dall'ambiente dove non riusciva a intrattenere rapporti normali. Quest'uomo insiste nel voler restare con Gesù mentre la gente insiste nel desiderio che Gesù se ne vada. Reazioni opposte, entrambe plausibili. Ne capiamo il motivo: l'uomo che era oppresso, ora ha una vita libera e lo sente profondamente; le altre persone non sono libere, hanno paura.

2’ PARTE – LE AZIONI DI MISERICORDIA

Mi sembra che questo brano evangelico ci restituisca alcune tracce importanti dell’umano che vorrei brevemente riprendere con tre espressioni sintetiche (ma non esaustive) che particolarmente vedo emergere e che mi suggeriscono un collegamento con tre azioni di misericordia (preferisco chiamarle così), sapendo che ciascuna dice soltanto alcune sfumature dell’agire nella misericordia; le tre parole sono:

  • identità
  • fragilità
  • responsabilità

Mi soffermo in particolare sulla prima, perché mi sembra che in qualche modo racchiuda anche le altre.

1. Perdonare le offese6

Collego questa parola – identità – al perdonare le offese.

L'uomo incatenato nel suo male può evocare la situazione della persona chiusa nel non perdono (di sé stessa o di un'altra persona o di Dio): l’incapacità di perdono può condurmi alla malattia, perché mi chiude. Si può dire che l’uomo del nostro racconto ha sperimentato il perdono perché è stato amato e non giudicato.

Dare nome. Ci sono certe situazioni di vita in cui ci troviamo possono portare a vivere con un costante senso di colpa o con un senso profondo di infelicità perché non ci possiamo perdonare di aver fatto una certa scelta, di aver detto una certa cosa, di aver compiuto un certo gesto o non possiamo perdonarlo ad altri. Vivere un’esperienza di perdono significa prima di tutto riconoscere e chiamare per nome il male che ho compiuto o subito. Dare un nome significa riconoscere un'identità. E riconoscere un'identità delimita in qualche modo il campo: se non riesco a operare questa delimitazione, sono condotta al rischio altissimo di lasciare che il male invada tutto il campo.

E’ davvero fondamentale andare alla ricerca dentro di noi della fonte dell'infelicità, del senso di colpa, della rabbia, … non necessariamente da soli, perché dare un nome ci permette di dominare le forze indistinte, come nel caso del nostro uomo del Vangelo. Il libro della Genesi ci restituisce questa fondamentale verità quando parla della creazione ponendo al principio la parola che dà nome e realizza così un ordine. Questo è un compito dell'uomo, direi è la traccia dell'umanità. Noi riconosciamo l'umano ogniqualvolta siamo capaci di dare nome a ciò che ci abita e saper porre questo al servizio della relazione, perché dare nome ci permette anche di cogliere la somiglianza e la differenza. Questo discorso aprirebbe una riflessione ben più ampia: dentro di noi e nelle nostre relazioni siamo chiamati a divenire capaci di dare nome non soltanto per divenire capaci di perdono, ma anche per non lasciarci fagocitare dal flusso incessante che in quanto esseri relazionali ci caratterizza, oggi ancor più che ieri. Pensiamo al flusso indistinto di informazioni che ogni giorno abbiamo sotto gli occhi, pensiamo alla quantità incommensurabile di dati a cui possiamo accedere attraverso uno smartphone: se non siamo capaci di nominare, di fare ordine dentro di noi, di dare un senso ultimamente a ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo emotivamente, che ne è di tutto questo? Resta un flusso indistinto che ci attraversa ma che non lascia traccia e quindi profondamente non ci definisce. La nostra umanità viene ridefinita ogni giorno dagli eventi, dalle relazioni, e non possiamo banalmente mettere la testa sotto la sabbia. Certo, possiamo vivere anche così, ma questo non è un livello umano. Così funziona anche con tutte le potenzialità di bene e di male che abbiamo dentro: dare un nome mi permette di vivere davvero il mio essere donna, uomo, la mia umanità. E così forse posso anche riscoprire l'umanità di colui o colei che mi ha offeso.

Soffrire dando nome. Dare un nome al dolore provocato dall'offesa significa sentire tutto il peso di questo dolore; non scivola via. Sento il peso del male subito. Lo sento spesso anche nelle viscere, nel mio corpo, lo sento nell'emotività ferita, percepisco dentro di me una lacerazione (come l’uomo del Vangelo che percepisce nel suo corpo tutto questo disagio). Dare il nome è doloroso. In questo senso penso si possa identificare il valore salvifico della sofferenza. Spesso su questo argomento si pronunciano parole imbarazzanti, come se io dovessi soffrire per avere la salvezza, quasi andare a cercarmi la sofferenza perché mi salva. No. La sofferenza significa sentire il peso del male, ma per non rimanere schiavi di esso. Mi salva soltanto perché costruisce un passaggio delicato di trasformazione in cui io esco diversa da come ero prima.

Guarire la memoria. Il perdono si oppone alla dimenticanza, poiché posso perdonare ciò che ricordo, che non ho dimenticato; chi è ferito, offeso, chi ha vissuto traumi profondi, può arrivare al perdono proprio perché ricorda. E il perdono libera dalla coazione a ripetere. Dietro l'atto del perdono c'è la guarigione della memoria, perché se perdono non resto in balia del risentimento e prigioniera del passato e forse posso arrivare a riconoscere che una persona mi può fare del male perché sta vivendo male. Siamo quindi responsabili di ciò che facciamo con il male che abbiamo subito. In qualche modo il perdono è dare futuro, mentre la vendetta ferma il tempo.

Lasciar andare. Il perdono fa fare l'esperienza liberante del lasciar andare: «il perdono è l'unica reazione che non si limita a reagire, ma che agisce nuovamente e inaspettatamente, non condizionato da un atto che l'ha provocato, e che quindi libera dalle sue conseguenze sia colui che perdona sia colui che è perdonato»7.

Guarire il corpo. Quando sento nascere dentro di me il desiderio di perdonare, c'è un moto affettivo in atto che mi chiede di espormi, di andare incontro e utilizzare i diversi linguaggi per esprimere questo desiderio. Volutamente parlo di «linguaggi» al plurale, poiché quando dico «linguaggio» tendenzialmente penso al linguaggio verbale; già questo tipo di linguaggio ha molte sfumature (pensiamo al potere della metafora o della poesia). Insieme al linguaggio verbale, vi sono i linguaggi non verbali: il gesto, lo sguardo, il profumo, la sonorità, l'atteggiamento corporeo... tutto questo entra in gioco nel momento in cui avviene un'interazione tra due persone. Se io dunque desiderio perdonare, entra in gioco tutta la mia persona con la complessità dei linguaggi che ne fanno parte, così come se scelgo di non perdonare, è tutta la mia persona che trasmette il rifiuto del perdono. Dobbiamo riappropriarci della forza dei nostri linguaggi corporei. L’amore di Dio è corporeo. Posso dire «ti perdono», ma quanto è più forte dire il perdono con un contatto corporeo, una mano sulla spalla, un abbraccio, una prossimità che si esprime con maggiore intensità. Quindi il perdono in qualche modo rende anche il nostro corpo libero di esprimersi, capace di manifestare con tutte le potenzialità di cui è capace, il perdono offerto e ricevuto.

Onnipotente e fragile. Il perdono è onnipotente (tutto può essere perdonato), ma contemporaneamente è infinitamente debole, poiché io non posso definire a priori se la persona che perdono accoglierà o meno questo atto, ma questa è esattamente l'unilateralità dell'Amore.

2. Sopportare pazientemente le persone moleste8

A proposito di fragilità, mi sembra di poter legare a questa parola l’azione di sopportare pazientemente le persone moleste. Questa azione di misericordia chiede esattamente di tenere insieme la fragilità e la pazienza. Nel brano che abbiamo approfondito questa sera, Gesù libera pazientemente questo uomo molesto lasciando che esprimesse la sua fragilità e mettendosi in ascolto. E questo atteggiamento non è assolutamente passivo. Pazienza in greco si può rendere con hypomone, che si riferisce a «rimanere al di sotto» e a «dimostrare fermezza», è respingere un attacco, non è un atteggiamento passivo. Ha la capacità di sostenere senza cedere, è una resistenza. Questa resistenza si riferisce al fatto di saper riconoscere nella persona che ho davanti una fragilità e semplicemente non pretendere che questa persona sia come io desidero. Questo richiede davvero pazienza, chiede proprio di sopportare, cioè «portare sotto», sostenere, reggere su di sé. Una comunità – parrocchiale, familiare, religiosa - sopravvive se si è disposti a sopportarsi a vicenda (s. Benedetto nella sua Regola dice dei monaci: «Sopportino con somma pazienza le infermità fisiche e morali degli altri»). Sopportare è un esercizio che dura tutta la vita e se ci è chiesto, è perché ci possiamo esercitare. «Noi che siamo forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (Rm 15,1): noi siamo forti in quella cosa e possiamo sostenere chi è debole, così come qualcun altro sopporta noi su altri versanti in cui siamo noi i molesti. Sopportare con pazienza è saper stare in questa incompiutezza e questo vale anche nei confronti di noi stessi.

3. Ammonire i peccatori9

Questo ci conduce a un atteggiamento di responsabilità, e qui, da ultimo, trovo una risonanza con l’azione di ammonire i peccatori. Parlando di comunità, ammonire esprime una responsabilità legata all'essere membra di uno stesso corpo. Pensiamo alla comunità a cui apparteneva l’uomo sofferente del nostro brano, quanto è stata esercitata in quella comunità, in quella famiglia, la responsabilità? In certe situazioni, tacere significa essere complici del male. L'ammonizione dei peccatori è un modo per uscire dall'individualismo e riconoscere di essere responsabili gli uni degli altri, che c'è una dimensione sociale che non possiamo eludere, poiché siamo umani. L’etimologia della parola greca (nouthetein) indica il «porre la mente» (noùs) su un altro per aiutarlo a scoprire i suoi sbagli e a evitarli. Il latino ad-monere richiama sia l’avvisare, il mettere in guardia dai pericoli, ma anche il «ricordare»: l'ammonizione è un far ricordare ciò che si è dimenticato, è un riportare alla realtà chi se ne è allontanato. Ammonire ha il significato di ristabilire una relazione di fraternità. Nel Nuovo Testamento questo discorso è sempre legato alla dimensione comunitaria: stai vivendo in una dimensione di peccato che ti separa dall'essere in comunione, pertanto io ti ammonisco, ti ricordo qual è la tua dimensione più vera.

L'ammonizione richiede la capacità di mettersi in ascolto e la fiducia; ammonire qualcuno significa primariamente parlare con lui e non di lui con altri. Richiede un lavoro su di sé per imparare a convivere con il male e farsi carico del male del fratello riconoscendolo come un venir meno all' umanità che lo caratterizza e un indebolire la comunità in cui si vive. L'ammonizione va fatta quindi tenendo conto di condividere la stessa umanità e cercando di camminare insieme a colui che si ammonisce stimando la sua vita e facendo in modo che ne esca rinforzato e non abbattuto, che abbia voglia di mettersi in cammino e non di interromperlo. Per questo richiede discernimento.

 

"I fatti passati sono incancellabili;
il senso di ciò che è avvenuto, sia che l'abbiamo fatto, sia che l'abbiamo subito,
non è fissato una volta per tutte"10.

 

 


1 4,35-41: la tempesta sedata; 5,25-34: la guarigione della donna con perdite di sangue; 5,21-34.35-43: la rianimazione della figlia di Giairo.

2 M. D’Agostino, Il Dio pensieroso. Spunti biblici per educatori in cammino, Cittadella, Assisi, 2010, p.99.

3 Altri riferimenti simili nel testo biblico: Gdc 11,12; 13,18; 1Re17,18; 2Re3,15; 2Cr 35, 21; Sal 78(77), 35-56.

4 M. D’Agostino, Il Dio pensieroso, p.27.

5 Lv 11,7; Dt 14,8.

6 L. Manicardi, La fatica della carità, Qiqajon, Bose, 2010,p. 169-175.

7 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 201310, p.177-178.

8 L. Manicardi, La fatica della carità, p.177-186.

9 L. Manicardi, La fatica della carità, p. 153-160.

10 P. Ricoeur, Il perdono può guarire?, citato in L. Manicardi, p. 174.