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La Catechesi Adulti

Catechesi 2017-18

Il canovaccio della catechesi di quest’anno riprende lo schema dell’anno scorso.

Ci saranno dei momenti di catechesi a cadenza quindicinale nei tempi ordinari (ottobre - novembre, febbraio e aprile).

In Avvento ci saranno gli esercizi spirituali predicati da un giovane prete, Paolo Alliata.

La catechesi ordinaria sarà affiancata da tre catechesi bibliche, al sabato pomeriggio alle 18 nei mesi di gennaio e maggio.

In Quaresima è previsto il quaresimale del venerdì a cadenza settimanale. Come vedete abbiamo una proposta di catechesi significativa.

Quest’anno nel nostro percorso di catechesi, faremo una riflessione articolata sul Padre Nostro. È la preghiera per eccellenza del cristiano della quale cercheremo di scoprirne aspetti vari. È una preghiera che tutti conosciamo a memoria e corriamo il rischio di ripeterla per abitudine.
Scopriremo il Padre Nostro come preghiera semplice, quotidiana e come preghiera della comunità cristiana inserita nella celebrazione della Messa e nella liturgia delle ore.

 Di seguito i documenti degli incontri:

 

Il Padre Nostro (7)

CATECHESI 2017-18

Il Padre Nostro

giovedì 26 aprile - 7° incontro – Il Padre Nostro

Questa sera ci soffermiamo sulla invocazione con cui si conclude il Padre Nostro: “ma liberaci dal male”. Cominciamo con alcune osservazioni preliminari.

È una conclusione brusca dal momento che, diversamente da altre preghiere giudaiche, non termina con una lode a Dio.

Inoltre, è una conclusione che riprende il tema dell’invocazione precedente: “non ci indurre in tentazione”, tanto è vero che nella redazione di Luca questa frase non la troviamo.

Questa conclusione lascia aperti degli interrogativi che permettono per un verso di cercare delle risposte personali e per un altro fa intravedere che la parola di Dio non ha come scopo di dare una risposta a tutto. (Il cammino della fede cristiana entra nella dimensione del mistero, non di qualcosa di cui non si capisce nulla, ma come di una realtà che non si finisce mai di comprendere. La dimensione del mistero ci apre ad un approfondimento costante, ad una scoperta che si rinnova, legata alla parola di Dio più che al dogma. Ci rendiamo conto che per essere cristiani non bisogna aver capito tutto, non è necessario.)

Indubbiamente tra le ultime due invocazioni del Padre Nostro esiste un parallelismo.

Questa conclusione possiamo vederla come un grido, un gemito. Non sembra una preghiera ma piuttosto l’invocazione forte di chi percepisce esattamente un pericolo.

Dopo le osservazioni preliminari rispondiamo a due domande:

  1. cosa si intende per “male”?
  2. a cosa fa riferimento il termine: “liberaci”?

a) Di quale male parla il Padre Nostro? Quando noi pensiamo al male pensiamo a tante cose:

  • Il male può essere qualcosa di cattivo, di malvagio; può essere il male che ha a che fare con il peccato; è il male morale,
  • Il male è anche ciò che è legato al limite umano, le miserie che ostacolano la vita,

Già in questa prima distinzione ci sono sfumature molto importanti. A cosa si riferisce il Padre Nostro? Probabilmente ad entrambe. Infatti Gesù nei Vangeli ha cercato di porre rimedio ad entrambe, pensiamo ai miracoli. Tuttavia il male a cui si riferisce il Padre Nostro non può essere soltanto la malattia. Gesù non è venuto a fare il guaritore delle malattie…

C’è poi un terzo possibile significato di male:

  • il male può essere inteso anche come una realtà che si esprime in termini personali, personificati, cioè il male è il “Maligno”. In questo caso la conclusione della preghiera sarebbe ancora più profonda: “liberaci dal Maligno” e questa sembra essere il significato più accreditato.

Questo significato darebbe al Padre Nostro un sapore apocalittico ed escatologico. C’è una lettura del Padre Nostro che va in questa direzione: lo abbiamo già visto a proposito dell’invocazione “dacci oggi il nostro pane quotidiano” in cui il pane non è tanto quello materiale quanto il pane celeste, l’eucaristia, è il pane per la vita eterna, qualche cosa che va al di là della semplice contingenza.

Quando si parla di contesto apocalittico ed escatologico ci si vuol riferire a ciò che avverrà alla fine della storia, al grande scontro definitivo tra Cristo e Satana. In questo senso è molto probabile che quando Gesù nel Padre Nostro insegna a dire “liberaci dal Male” intenda riferirsi alla liberazione dal Maligno che è colui contro il quale si compirà la lotta finale della storia.

Di questa lotta finale è piena tutta la Sacra Scrittura e in particolare il Nuovo Testamento.

  • Col. 1, 13: “[13]E' lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, [14]per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati.
    Questo inno inizia parlando di Gesù come immagine del Dio invisibile… Questo inno potrebbe essere letto anche al posto del Credo.
  • 2 Tess.2, 7-8: “[7]Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. [8]Solo allora sarà rivelato l'empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all'apparire della sua venuta, l'iniquo, [9]la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri.
  • Mc., 3, 27: “[27]Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. [28]In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; [29]ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna». [30]Poiché dicevano: «E' posseduto da uno spirito immondo».
    Qui si vede come l’iniquità è già presente e attiva nella storia, è una presenza oscura e misteriosa.
  • Lc. 11, 20: “[20]Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.
    In questa lotta che comincia con la presenza del Signore sta anche la dimensione essenziale dell’annuncio, che è quello dell’avvento del regno di Dio. Non è un caso che il Padre Nostro inizi proprio così: “venga il tuo Regno”. Se questo è l’annuncio l’allontanamento di Satana ne è una conseguenza.
  • Lc. 10, 17-20: “[17]I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». [18]Egli disse: «Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. [19]Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. [20]Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli».
    È la venuta del Regno dei cieli

Qual è il senso del male da cui chiediamo la liberazione nel Padre Nostro?

Può essere il male fisico, il male morale, il male che è il Maligno. Ciascuno di noi può pregare il Padre Nostro tenendo conto di queste tre dimensioni e orientando il proprio sentire in modi diversi. Il termine che viene usato, il male, si presta a molteplici letture, ma l’ultima sembra la più pertinente.

 

b) Vediamo ora il secondo termine: “liberaci”. È una parola probabilmente mal tradotta: il verbo greco richiama un concetto più esteso e cioè vuol dire: “strappare dal pericolo di cadere nell’abisso”. “Liberaci” più che alla liberazione da una qualche forma di prigionia (liberazione evoca un’idea di prigione; essere liberato da qualcosa che mi blocca, che mi incatena), andrebbe intesa come “strappare dal pericolo di cadere”, evoca la dimensione del cammino; il cadere è tipico di chi è in movimento, dal momento che chi è fermo non cade.

“Liberaci” allora sarebbe da intendere come “Strappaci dal pericolo di cadere nell’abisso, proteggici contro le difficoltà del cammino, difendici dalle insidie che tramano sulla nostra strada”. L’immagine del cammino che viene ostacolato, un’immagine molto bella per descrivere la vita cristiana in movimento, è ripresa spesso nei salmi. A titolo di esempio ne leggiamo qualcuno.

  • Salmo 139 (140):
    [2]Salvami, Signore, dal malvagio,
    proteggimi dall'uomo violento,
    [3]da quelli che tramano sventure nel cuore
    e ogni giorno scatenano guerre.

    [6]I superbi mi tendono lacci
    e stendono funi come una rete,
    pongono agguati sul mio cammino.
    Le parole Padre Nostro riprendono questi concetti.

 

  • Salmo 68 (69):
    [2]Salvami, o Dio:
    l'acqua mi giunge alla gola.
    [3]Affondo nel fango e non ho sostegno;
    sono caduto in acque profonde
    e l'onda mi travolge.
    Anche qui è la preghiera del giusto che rischia di cadere, di trovare una strada piena di insidie.

Concludendo possiamo notare che l’invocazione “liberaci dal male” trova un’analogia con il versetto: “non abbandonarci nella tentazione”. Perché tutto questo? Evidentemente noi nella vita di fede sentiamo profondamente di essere salvati, redenti e viviamo l’anticipo della pienezza di questa redenzione. Nella nostra umanità, però, sperimentiamo frequentemente il nostro limite, il nostro peccato, il peccato degli altri, le strutture di peccato (come venivano chiamate anni fa, ad es. le ingiustizie, la finanza speculativa, ecc.), quelle che ostacolano le persone semplici che con queste devono fare i conti, volenti o nolenti.

Noi sperimentiamo questa duplice dimensione della vita: da una parte la fede che ci dice “tu sei salvato, e quindi hai speranza” e dall’altra la nostra umanità che ancora incontra il mistero del limite. Forse è per questo motivo che il Padre Nostro comincia parlando di Dio e finisce parlando di Satana.

“Liberaci dal Maligno” questa è l’ultima parola. In questa duplicità sta tutta la nostra vita, le nostre fatiche. Di questa duplicità parla San Paolo quando dice.

  • Rm. 8, 18-22: “[18]Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. [19]La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; [20]essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza [21]di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. [22]Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto;

Molto bella questa immagine dell’attesa, delle doglie, del gemito ma al tempo stesso anche della caducità, della corruzione e della dimensione definitiva nella quale noi abbiamo un riscatto che ci è stato dato come caparra già oggi.

Recuperiamo quindi il senso del nostro cammino. Questa è la nostra condizione e la nostra realtà di credenti. Il non credente può anche decidere di stare fermo. Ma lo stare fermi è proprio la tentazione dalla quale noi credenti chiediamo di essere liberati, come dicevamo la volta scorsa quando parlavamo della tentazione di “tirare i remi in barca”… Il cristiano è colui che è in cammino, in movimento; alle volte va di corsa, alle volte lentamente, alle volte inciampando, alle volte cadendo ma è sempre in movimento.

Come conclusione leggo un salmo bellissimo che di questo cammino fa un canto: il cammino del pio credente che si reca al Tempio di Gerusalemme e lo vede da lontano. Vede il tempio del Signore ricoperto da materiali lucenti che lo facevano risplendere anche a chilometri di distanza. Il pellegrino attraversa la valle del pianto ma è sostenuto dal desiderio e dalla nostalgia di arrivare alla casa del Signore. Lì e soltanto lì potrà fermarsi.

  • Salmo 83 (84): Canto di pellegrinaggio
    ….
    [2]Quanto sono amabili le tue dimore,
    Signore degli eserciti!
    [3]L'anima mia languisce
    e brama gli atri del Signore.
    Il mio cuore e la mia carne
    esultano nel Dio vivente.
    [4]Anche il passero trova la casa,
    la rondine il nido,
    dove porre i suoi piccoli,
    presso i tuoi altari,
    Signore degli eserciti, mio re e mio Dio.
    [5]Beato chi abita la tua casa:
    sempre canta le tue lodi!
    [6]Beato chi trova in te la sua forza
    e decide nel suo cuore il santo viaggio.
    [7]Passando per la valle del pianto
    la cambia in una sorgente,
    anche la prima pioggia
    l'ammanta di benedizioni.
    [8]Cresce lungo il cammino il suo vigore,
    finché compare davanti a Dio in Sion.
    [9]Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera,
    porgi l'orecchio, Dio di Giacobbe.
    [10]Vedi, Dio, nostro scudo,
    guarda il volto del tuo consacrato.
    [11]Per me un giorno nei tuoi atri
    è più che mille altrove,
    stare sulla soglia della casa del mio Dio
    è meglio che abitare nelle tende degli empi.
    [12]Poiché sole e scudo è il Signore Dio;
    il Signore concede grazia e gloria,
    non rifiuta il bene
    a chi cammina con rettitudine.
    [13]Signore degli eserciti,
    beato l'uomo che in te confida.

Questo salmo è come una sintesi nella quale ci viene detto che anche passando per la valle del pianto, in virtù della fede, la possiamo cambiare in una sorgente e che, lungo il cammino, addirittura, cresce non la stanchezza ma il vigore. E’ un paradosso: il pellegrino che fa chilometri di strada, più cammina più si stanca; il salmo invece dice che il vigore del pellegrino cresce quanto più si avvicina al tempio del Signore.

Questo è un orizzonte di grande speranza. Nel Padre Nostro possiamo trovare tanti spunti di speranza che lo fanno diventare una preghiera personale. Col Padre Nostro possiamo chiederci:

  • Qual è la mia tentazione…
  • Qual è il male da cui voglio essere liberato…
  • Qual è il pane quotidiano di cui ho bisogno…
  • Qual è il regno che aspetto…
Il Padre Nostro (6)

CATECHESI 2017-18

Il Padre Nostro

giovedì 12 aprile - 6° incontro – Il Padre Nostro

Questa sera ci soffermiamo sulla penultima invocazione del “Padre nostro” che in questo momento è soggetta a dibattito e cambiamento. Mi riferisco all’invocazione: “non ci indurre in tentazione”.

“Non indurci in tentazione”. Può essere articolata e divisa in due momenti:

  1. una riflessione sulla “tentazione”: che cosa è, a che cosa ci si riferisce, qual è il suo contesto.
  2. una riflessione sul verbo “non indurci”.

a) Che cosa è la tentazione

L’esperienza umana conosce la tentazione. Tentazione non è una parola sconosciuta, è nel linguaggio comune, ne abbiamo un qualche conoscenza. L’uomo di tutti i tempi conosce la tentazione:

  • Giobbe, cap. 7: “Tutta la vita degli uomini sulla terra non è forse tentazione?”.
  • Così pure salmo 17: “In te io sarò liberato dalla tentazione”.

Tutto questo non nasce soltanto da una sorta di debolezza umana. In realtà l’esperienza della tentazione è radicata nella nostra stessa costituzione. Siamo fatti un po’ così. Il nostro modo di essere, di vivere, è attraversato da una ambivalenza: da una parte il nostro vivere è solidale con il destino della terra, con la sua caducità, vulnerabilità, col limite, ma, al tempo stesso, esprime anche un dinamismo, un’evoluzione, un progresso.

Noi siamo dentro a questa dinamica a partire dalla nostra corporeità; viviamo la dimensione dell’evoluzione, perché cambiamo, cresciamo, pensiamo, ma viviamo anche fortemente la nostra limitatezza, basta una malattia e tutte le cose si bloccano.

Questa dimensione ci riporta costantemente a una grande domanda di significato che troviamo espressa per esempio nel libro del

  • Qoèlet, 2, 22: “[22] Allora quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?

Questa domanda, in maniera ancora più forte, si presenta a noi, qui, oggi, a noi che non siamo più giovani, ingenui, ma che ne abbiamo viste di tutti i colori, che abbiamo avuto le nostre delusioni e ci misuriamo con i limiti delle cose, questa domanda si ripropone fortemente.

D’altra parte questo nostro esserci, contiene una dimensione assolutamente originale, è la dimensione del desiderio. Nessun altro essere sulla terra vive l’esperienza del desiderare, e con il desiderio noi abitiamo il cielo, spezziamo i limiti, vogliamo andare più in là degli schemi definiti. Non è un problema di semplice buona volontà, è un impulso che non si spegne e quando si spegne è perché c’è una malattia. La mancanza di desiderio è una malattia.

Nel nostro mondo occidentale, evoluto, noi diamo tutto e subito ai nostri figli e nipoti. In questo modo non insegniamo loro ad aspettare, a progettare. Togliamo loro la fatica, offriamo di più del necessario. E’ un grave errore educativo perché spegniamo una delle esperienze fondamentali del vivere che è il desiderio.

Siracide 18, 6: “[6]Quando uno ha finito, allora comincia; quando si ferma, allora rimane perplesso.

La Sacra Scrittura chiama questi modi di essere: “esistenza nella carne” ed “esistenza nello spirito”.

  • Romani 8, 5-6: “[5]Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. [6]Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace.
  • Gv. 6, 63: “[63]E' lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. [64]Ma vi sono alcuni tra voi che non credono».
  • Gal. 5, 16: “[16]Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; [17]la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.

Il dramma della condizione umana, se così possiamo chiamarlo, consiste nel fatto che queste due dimensioni, che pure sono intrecciate, alle volte prevalgono l’una sull’altra e qui noi viviamo l’esperienza della contraddizione.

  • Romani 7, 15-25: “[15]Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. [16]Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; [17]quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. [18]Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; [19]infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. [20]Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. [21]Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. [22]Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, [23]ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. [24]Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? [25]Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.

Queste parole illustrano bene il senso della contraddizione, di questa ambivalenza. Questa realtà che ci accompagna giorno per giorno, nelle piccole cose e nelle grandi cose, è il terreno su cui si radica l’esperienza della tentazione. Questa ambivalenza crea la possibilità della tentazione, nel momento in cui l’uomo non accoglie e non accetta la sua finitezza.

Cos’è dunque la tentazione?

La tentazione per eccellenza è il provare a fare a meno dello Spirito per stare solo nella carne, è la tentazione dettata da quella che viene chiamata concupiscenza, cioè l’eccesso del desiderio, la brama.

  • Giacomo 1, 12-15: “[12]Beato l'uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano. [13]Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. [14]Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; [15]poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand'è consumato, produce la morte.

La tentazione è l’esperienza del “provare”, del seguire l’attrazione, la seduzione che diventa passione, quel sentimento cioè che è più grande di me, che non so controllare, che “patisco” e, in un certo senso, “subisco”. La tentazione, il “provare”, ha dentro di sé anche la convinzione di poter recedere: “io provo, ma se va male torno indietro”.

In questo senso la tentazione si contrappone all’altra grande esperienza umana che è la scelta.

La scelta di una situazione, di una circostanza, di una persona, suppone una libertà, non una passione, se mai una passione passata per il vaglio di una scelta, della ragionevolezza, attraverso il vaglio dell’attesa e quindi non più passione ma prospettiva, proposta. Passa dunque attraverso la libertà e soprattutto attraverso la fiducia.

Non c’è scelta vera della vita che non abbia una componente di fiducia perché ciò che io scelgo non è mai totalmente disponibile alla mia libertà, quando io scelgo. Qualunque cosa essa sia, c’è una piccola o grande quota di fiducia che ciò che sto per scegliere è un bene per me. Io non posso saperlo in tutto e per tutto, mi devo fidare della vita, di chi ho di fronte… il meccanismo della fiducia è insito nella scelta.

Nella tentazione invece la fiducia non è necessaria, c’è soltanto la concupiscenza, la seduzione e la passione.

L’esperienza della tentazione è un’esperienza pienamente umana, ed è anche, a volte, un’esperienza pericolosa, in cui si può mettere a rischio la vita.

D’altra parte sappiamo anche dalla nostra esperienza che le scelte importanti della vita ci hanno chiesto spesso molta fiducia (come nel caso del matrimonio).

Gesù ha vissuto l’esperienza della tentazione.

  • Mt. 4: Le tentazioni di Gesù durante i 40 giorni nel deserto
    [1]Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. [2]E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. [3]Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane». [4]Ma egli rispose: «Sta scritto:
    Non di solo pane vivrà l'uomo,
    ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
    [5]Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio [6]e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto:
    Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo,
    ed essi ti sorreggeranno con le loro mani,
    perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede».
    [7]Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:
    Non tentare il Signore Dio tuo».
    [8]Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: [9]«Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». [10]Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto:
    Adora il Signore Dio tuo
    e a lui solo rendi culto».
    [11]Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano.

Le tentazioni di Gesù non sono tanto verso il peccato ma nella ricerca fedele della volontà di Dio, una ricerca nel cammino terreno del Signore che si scontra con delusioni, rifiuti, incomprensioni.

  • Mt. 26, 38: “[41]Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». [42]E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà».

Nell’orto degli ulivi Gesù sente quasi un senso di costrizione. Ha la tentazione di scappare. Gesù ha vissuto la tentazione e chiede di pregare per non entrare in tentazione. Nelle narrazioni evangeliche le tentazioni di Gesù sono una sorta di ombra che lo accompagna durante tutto il suo cammino.

Vivere le tentazioni per Gesù è una espressione del suo condividere la condizione umana, è la soglia prima del peccato, è la condizione drammatica dell’uomo che rischia di perdersi.

  • Eb. 2, 18: “[18]Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.

La conclusione del Padre Nostro diventa una conclusione cristologica: “non ci indurre in tentazione” perché Gesù è stato indotto in tentazione. E il suo vivere la tentazione è stato un altro modo per vivere l’esperienza della condivisione. Gesù non ha condiviso con noi soltanto il mistero del dolore, ha condiviso anche il mistero della tentazione, che è la soglia che precede il peccato.

b) “Non indurci” in tentazione: Dio può indurre in tentazione?

Facciamo una distinzione:

Nell’Antico Testamento il tentare è sinonimo di mettere alla prova.

Dio mette alla prova: mette alla prova Abramo (episodio di Abramo e Isacco)

Dio mette alla prova Giobbe, lascia a Satana il potere di privarlo di tutto.

Dio mette alla prova Tobia che subisce traversie fisiche e morali.

Dt. 13,4: “il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima.

L’esperienza della prova è rivelatrice di quello che siamo autenticamente. Fino a quando le cose sono tranquille e normali, tutto sommato ci si barcamena. E’ quando arriva qualche problema che emerge lo spessore di chi resiste, di chi si rigenera e si rialza o di chi viene azzerato e demolito dalla vita. Ci sono persone in situazioni drammatiche che resistono e conservano lucidità.

È la prova che fa emergere quello che siamo.

  • 1PT 1, 6-7: “[6]Perciò siate ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, [7]perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore

Nel Nuovo Testamento invece la tentazione ha un significato diverso, è legata al male, all’egoismo, proviene direttamente dal maligno, dal demonio. Dunque, non è Dio l’artefice della tentazione.

Cosa si dice nel Padre Nostro?

Il testo greco utilizza una parola che in realtà potrebbe essere tradotta “non farci entrare nella tentazione”, utilizza la parola “entrare” nella quale c’è quasi una dimensione spaziale. Vuol dire essere preservati da situazioni critiche, in cui si comincia ad essere affascinati dal male.

Chiediamo a Dio di farci la grazia di non metterci in certe situazioni perché non siamo così sicuri di come reagiremmo. Chiediamo quindi a Dio di “tenerci una mano sulla testa”, di proteggerci, di non farci arrivare alla soglia del pericolo. Chiediamo una sorta di “prevenzione” rispetto alla nostra debolezza, invochiamo che Dio arrivi prima della nostra libertà, che rimane integra ma che è molto insicura e fragile in certe situazioni.

Questo, forse, è il significato di “non indurci, non farci cadere in tentazione”.

Quale può essere per noi oggi la tentazione capitale?

La tentazione è quella dell’abbandono della fede nella sua dinamica esistenziale. Non tanto in ciò che crediamo in termini di principi e di idee, ma nella dimensione esistenziale della fede. Cioè la perdita del desiderio della venuta del Regno. Il Vangelo sostanzialmente annuncia la venuta e la presenza del Regno ma noi a tutto questo ci crediamo ancora? O ci stiamo ritirando dal dinamismo del Regno di Dio?

La tentazione oggi è quella di tirare i remi in barca, di fare di ogni erba un fascio, è quella di lasciar andare le cose senza speranza, di non impegnarsi…

È la tentazione di abbandonare il Signore come hanno fatto i discepoli nel Getsemani

  • Mt 26, 47-56: “[47]Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. [48]Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». [49]E subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò. [50]E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. [51]Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote staccandogli un orecchio. [52]Allora Gesù gli disse: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. [53]Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? [54]Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?». [55]In quello stesso momento Gesù disse alla folla: «Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. [56]Ma tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti». Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono.

ESERCIZI SPIRITUALI DI AVVENTO 2018

ESSERE CORPO

Lunedì 26 novembre - 1° incontro

Brano introduttivo tratto da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera.

“Teresa è quindi nata da una situazione che rivela brutalmente l’inconciliabile dualità, di corpo e ani ma, esperienza umana fondamentale. Tanto tempo fa, l’uomo ascoltava, con stupore un suono di colpi regolari che veniva dal suo petto e non si immaginava certo che cosa fosse. Non riusciva a identificarsi con una cosa tanto estranea e sconosciuta come un corpo. Il corpo era una gabbia e al suo interno c’era qualcosa che guardava, ascoltava, aveva paura, rifletteva e si stupiva; questo qualcosa, questo resto lasciato dalla sottrazione del corpo, era l’anima. Oggi, ovviamente, il corpo non è più uno sconosciuto: sappiamo che ciò che batte nel petto è il cuore, e che il naso è l’estremità di un tubo che sporge dal corpo per portare ossigeno ai polmoni. Il viso non è che un quadro di comando dove vanno a sfociare tutti i meccanismi del corpo: la digestione, la vista, l’udito, la respirazione, il pensiero. Da quando l’uomo sa nominare ogni sua parte, il corpo lo preoccupa meno. Ormai sappiamo anche che l’anima non è che un’attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori moda. Ma basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino, perché l’unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell’età della scienza, svanisca di colpo.

Lei cercava di vedere sé stessa attraverso il proprio corpo. Per questo stava così spesso davanti allo specchio. E avendo paura essere sorpresa dalla madre, gli sguardi che dava allo specchio avevano il marchio di un vizio segreto. Quello che l’attirava verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio io. Dimenticava che stava guardando il quadro di comando dei meccanismi del corpo. Credeva di vedere la sua anima che le si rivelava nei tratti del suo viso. Dimenticava che il naso non è che l’estremità di un tubo che porta aria ai polmoni. In esso vedeva l’espressione fedele del proprio carattere. Si guardava a lungo e a volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei stessa. Quando ci riusciva, era un momento di ebbrezza: l’anima saliva sulla superficie del corpo come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le meni verso il cielo e canta.”


LETTURA BREVE

Mt. 3, 13-17

13In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia». Allora Giovanni acconsentì. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».

 

Abbiamo un corpo o siamo un corpo? Questa è la domanda che ci pone la pagina che abbiamo appena ascoltato, tratta da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, romanzo scritto durante la primavera di Praga, al tempo dell’invasione russa che racconta la vicenda di due personaggi, un chirurgo donnaiolo e una ragazza di nome Teresa. Il primo simboleggia la leggerezza del vivere che non vuole prendersi responsabilità ma che col tempo perderà leggerezza. La seconda simboleggia la pesantezza del vivere rappresentata dal rapporto con la madre.

Abbiamo ascoltato l’esperienza di Teresa, il rapporto con il suo corpo che sembra essere molto adolescenziale nel modo con cui ella lo vede allo specchio. Quante volte anche noi ci ritroviamo a guardare lo specchio e ci domandiamo se siamo veramente noi, se quello che vediamo corrisponde alla vitalità che abita nel nostro cuore o al contrario se il nostro cuore stanco si riconosce nel fisico ancora giovane che vediamo nello specchio.

I momenti della vita sono scanditi da questa dualità, del rapporto con il nostro corpo, che da una parte è noi stessi e dall’altra sembra non appartenerci fino in fondo. Sono soprattutto i momenti di crisi che sembrano insinuare una divisione, una spaccatura tra queste due dimensioni. Nel testo di Kundera sentivamo un riferimento alla cultura contemporanea nella quale lo spazio dell’anima sembra sempre più venire sottratto da una scienza che ci insegna la profonda compenetrazione tra l’aspetto psicologico e l’aspetto fisiologico. Tutto quello che gli antichi rappresentavano in forma di mistero, addirittura lo stesso battito del cuore, il mistero di svegliarsi respirando, quello che un bambino è chiamato a fare per abbracciare la vita che gli si fa incontro, tutte queste dinamiche erano antropologicamente lette come dimensione del simbolico, del mistero, del sacro, qualcosa avvolto da una dimensione più grande di noi che ci sovrasta pur abitandoci. Oggi la scienza ci aiuta invece a leggere queste dinamiche in maniera fisiologica e talvolta materialistica e deterministica. Soprattutto gli studi delle neuroscienze ci insegnano come le nostre emozioni vengano da qualche soluzione chimica, da qualche dipendenza da ormoni, da elementi biologici e allora tutto quello che ci sembra essere l’ambito dell’immaginifico, della psiche, dell’anima della persona sembra sempre più ridotto a qualcosa di descrivibile in maniera sempre più concreta e talvolta materialistica. Se pensiamo anche ai grandi risultati della medicina, soprattutto di quella occidentale rispetto alle medicine orientali che hanno sempre cercato di mantenere un’idea di unità del corpo e dell’anima, ci rendiamo conto che la medicina occidentale senza l’anatomopatia non si sarebbe mai sviluppata. Ma cos’è l’anatomopatia se non dividere un corpo e trattarlo come un insieme di parti? La medicina ha bisogno di sezionare per riuscire ad operare e mentre seziona divide una realtà unitaria e rischia di perdere il suo insieme. La cultura di oggi ci porta a focalizzarci sul particolare perdendo di vista l’insieme: così anche il corpo perde sempre di più la dimensione del mistero e acquista sempre più la figura di un insieme di parti.

Mentre navighiamo in questa cultura, che trova eco nelle pagine di Kundera, come cristiani dobbiamo chiederci quale immagine del corpo abbiamo e soprattutto che cosa ci dice il vangelo del battesimo di Gesù, quello che abbiamo appena ascoltato, che cosa ci dice a proposito del corpo di Gesù e quindi che cosa può dirci del nostro corpo.

Le nostre tre serate, che ho intitolato “essere corpo”, “essere anima”, “farsi storia”, sono collegate l’una all’altra per arrivare a descrivere in termini contemporanei il senso del mistero e del dogma dell’Incarnazione.

Ci avviciniamo al Natale che non è semplicemente il prendere corpo di Dio, ma diventare corpo, essere corpo da parte di Dio. Questo dovrebbe colpirci e sconvolgerci. Per noi cristiani, infatti, l’Incarnazione non è semplicemente prendere su di sé un vestito che poi può essere tolto, ma è entrare nelle più intime dinamiche della storia: è diventare una personalità, una vicenda umana, avere delle fattezze particolari. Per questo motivo molti mistici e santi pensavano e pregavano Maria mentre osservavano le icone di Gesù, perché capivano che anche nelle fattezze di Gesù c’era in qualche modo una traccia delle fattezze di Maria. Così come nel nostro corpo ci sono tracce delle fattezze dei nostri genitori. Questa dinamica del “prendere corpo” da parte di Dio, di “essere corpo” da parte di Dio, significa davvero mischiarsi con vicende umane singole e particolari.

Mi fermo su questo punto dal momento che viviamo in un’epoca utilitaristica; non siamo più ai tempi dei primi cristiani che facevano lotte e dispute pur di dire la loro sull’identità e il mistero di Dio. A noi dell’identità di Dio interessa poco, purtroppo! Ci interessa piuttosto capire cosa implichi l’identità di Dio sul nostro versante. Cercherò in queste sere, comunque, di affrontare il mistero di Dio attraverso tre passaggi, sempre però con la riflessione di come il mistero - nella sua luce e talvolta nella sua ombra, perché il mistero rimane qualcosa di insondabile - ci raggiunge ed è capace di leggere la nostra realtà umana e quindi anche la nostra realtà corporale.

Entriamo nel vivo del vangelo che abbiamo appena letto: riguarda il corpo di Gesù che emerge dopo il battesimo dalle acque del Giordano. La storia dell’arte si è scatenata su questa pagina non fosse altro perché dava la possibilità di raffigurare l’anatomia maschile in tutta la sua bellezza e anche in tutta la sua armonia, mettendo in evidenza anche l’aspetto sessuale di Gesù, che non si incarna in una persona generica ma si incarna in una persona di sesso maschile. Il battesimo diventa l’occasione per mostrare nella nudità di Gesù che emerge dall’acqua l’anticipazione di quella che sarà la nudità finale di Gesù stesso sulla croce. Sono due nudità altamente simboliche, che sono poste in dialogo tra di loro e che, a loro volta, si distinguono da un’altra nudità che troviamo nella Bibbia, quella di Adamo, Adamo l’uomo creato da Dio ma già corrotto dalle sue scelte, che si ritrova ad essere nudo non perché innocente ma perché si ritrova schiavo. Lo schiavo infatti era nudo perché non aveva la capacità e la possibilità di coprirsi ma doveva semplicemente badare al suo lavoro e non al suo corpo che diventava oggetto meccanico per il compimento di opere volute da altri.

Gesù, invece si presenta come nuovo Adamo, nella sua nudità. Nella bellezza del suo corpo mostra un’innocenza ancora possibile perché proviene da Dio. Entrando nelle acque del battesimo anche noi possiamo ricevere in qualche modo l’innocenza che il corpo di Cristo, corpo santo, è capace di emanare. E’ proprio su questa dimensione che vorrei riflettere anche in relazione a ciò che la liturgia ambrosiana, ma non solo, ha pensato al riguardo nel tempo dell’Epifania. Le Messe del tempo dell’Epifania, soprattutto nei prefazi, richiamano alla memoria dei fedeli tre episodi successivi che riguardano la vicenda umana di Gesù e, in modo particolare, il modo di porsi del suo corpo in tre episodi considerati epifanici cioè che manifestano il volto cristiano di Dio. Gli episodi sono il battesimo di Gesù, le nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani.

Entriamo in queste vicende chiedendoci qual è la funzione del corpo di Gesù così come il Vangelo ce la presenta.

Il battesimo di Gesù. I Padri della Chiesa avevano avuto una grandissima intuizione: secondo loro una volta che il corpo del Figlio di Dio è entrato nelle acque, tutte le acque della terra sono risultate benedette. I Padri della Chiesa, tra cui anche Ambrogio, riflettevano sul fatto che ricevere il battesimo significa entrare nell’acqua che è già stata segnata dalla presenza di Dio. L’immagine che i Padri della Chiesa ci consegnano è quella di un corpo, quello di Cristo, capace di sanare; dunque, un corpo che sana. Nel contesto della cultura contemporanea che nel tentativo di leggere in continuità l’anima e il corpo non riesce più a capire il di più di esperienze fondamentali come l’innamoramento, la malattia, la morte, la crisi, momenti in cui anima e corpo sembrano non dialogare più così tanto bene, in questo specifico contesto che cosa significa un corpo che sana? Un corpo che sana significa il desiderio di Gesù di farsi vicino ai peccatori: il battesimo è questo. Gesù non aveva bisogno di essere purificato dai peccati ma voleva manifestare il desiderio di Dio di essere insieme agli peccatori fino in fondo. Anche la posizione geografica in cui avviene questo episodio, a suo modo lo dice: il battesimo avviene nel Giordano, il punto più basso nella geografia della Terra di Israele, è la depressione più grande quasi a dire che è una sorta di anticipo della discesa di Gesù agli inferi. Fin dall’inizio della sua missione apostolica ed evangelica, Gesù vuole condividere il destino degli ultimi e degli abbandonati, dei peccatori, e si spinge fino in fondo nella voragine del peccato umano per sanarlo alla sua radice. Il corpo di Gesù comincia qui a mostrarsi come un corpo che è capace di trasformare il corpo delle altre persone attraverso il suo tocco, attraverso la sua carezza, attraverso la sua tenerezza e intimità. Gesù ci mostra come anche il nostro corpo, anche se preso dalle dinamiche di peccato e per questo non riesce a “venirci dietro”, fa fatica a portarci avanti nella vita di tutti i giorni; nonostante tutto ciò il nostro corpo è potenzialmente sacramento della tenerezza di Dio. A questo proposito pensiamo a tutte le parole spese da papa Francesco quando dice che non dobbiamo avere paura della tenerezza e del nostro corpo e che quando ci chiediamo che cosa siamo, c’è sempre una risposta possibile: non siamo semplicemente un qualcosa, che si limita ad agire strumentalmente, ma possiamo trasformare la realtà intorno a noi, soprattutto la realtà dei corpi vicini a noi prendendoci cura in particolare dei malati, dei morenti, dei sofferenti.

Fin dall’inizio Gesù si manifesta come medico delle nostre anime e dei nostri corpi, un medico molto diverso dai medici di oggi. Lui sa vedere le malattie dell’anima nel corpo e le malattie del corpo nell’anima e sa far dialogare questi due elementi senza scinderli ma vedendo in essi una profonda unità e anzi riportando unità là dove c’è dissidio.

Il secondo episodio, sempre connesso a questa dimensione epifanica, è quello delle nozze di Cana. Qui vediamo che Gesù, anche grazie all’intervento di Maria, è un corpo che celebra, non solo un corpo che sana: un corpo che celebra e sa vivere l’ebbrezza dei rapporti; sa anche portare ebbrezza là dove rischia di nascere la tristezza. A questo proposito non possiamo tacere una realtà fondamentale: siamo tutti persone con un eros che è disegnato nel profondo dei nostri corpi. Eros e agape andrebbero meglio declinati e correlati. Ricordiamo ad esempio l’episodio del bacio al lebbroso di San Francesco, che noi abbiamo sempre visto come un pio episodio ma è piuttosto un episodio epifanico. Francesco, poco prima di baciare lebbroso si era spogliato nudo davanti al vescovo. Ebbene nudità e bacio sono due simboli profondamente erotici ma Francesco ci mostra come queste due dimensioni, quando sono vissute in Dio e per Dio, non dicono il contrario di ciò che Dio vuole. Senza eros, senza una spinta, un’attrazione nei confronti dell’altro non c’è carità possibile. Provare attrazione per un lebbroso è un po’ un paradosso ma in questo Francesco ci mostra propriamente come la natura dell’eros più ancora che l’agape sia quella di essere “amanti dell’amore”, molto di più della sola dimensione corporea dell’altro. Senza essere folli per l’amore, i santi della carità non avrebbero mai avuto la forza di uscire da sé stessi e andare incontro e toccare con mano il corpo macilento di un malato. In questo ci aiuta anche un grande pensatore russo, Vladimir Solov’ëv, il quale diceva che senza il sentimento erotico, senza il bisogno sessuale, l’uomo rimarrebbe una monade chiusa in sé stesso. Il desiderio sessuale, dunque, è una forza essenziale che ci porta ad uscire necessariamente da noi stessi. Quando l’eros è vero ci prende e ci fa uscire dal nostro piccolo mondo. Non c’è ambiguità quando l’amore è concepito in continuità con il volere di Dio. Tutto questo ci chiede di domandarci: come vivo il mio corpo e come vivo il corpo dell’altro? Lo vivo solo come un peso o lo vivo anche come un dono e un piacere? Sono capace di celebrare la vita nel donare piacere all’altro e nel ricevere piacere dall’altro? Questa è una dimensione assolutamente essenziale nella vita cristiana soprattutto se si è sposi, anche quando si è avanti negli anni. Chi non ha il senso del piacere non sa celebrare la vita, non sa lodare Dio; soprattutto nei momenti più alti di cui Dio ci ha fatto dono, come quello dell’incontro sessuale tra uomo e donna.

Lo sposalizio di Cana richiama tutto questo nella sua simbologia: c’è l’incontro tra due persone, c’è il dono del vino nel quale viene trasformata l’acqua che, pur nella sua purezza, non è più capace di dire la pienezza del dono di Dio. È interessante questo passaggio: dall’acqua del battesimo simbolo di purezza, alla crescita nella simbologia verso l’ebbrezza del vino. Uno che cresce nel suo cammino cristiano deve passare attraverso le acque della purificazione del battesimo e crescere verso l’ebbrezza della celebrazione, saper lodare Dio persino di fronte alla morte. San Francesco chiamava la morte come la sua sposa, sua sorella. Senza eros non riusciamo neanche a morire perché nei confronti della morte non riusciamo a vincere la paura se non ne abbiamo un profondo desiderio: un desiderio che non è nichilista, ma la voglia di scoprire cosa c’è oltre, cosa si aprirà di fronte alle nostre esistenze. Senza questo eros, anche nei confronti dell’aldilà, non riusciremo mai a celebrare la vita di ogni giorno perché altrimenti la vita sarà solo un peso e la paura della morte sarà ad ogni angolo a minacciare l’integrità del nostro vivere.

L’ultimo episodio è la moltiplicazione dei pani. In Gesù contempliamo il mistero di un corpo che si dona. La moltiplicazione dei pani è un segno connesso anche alla dimensione eucaristica. Non c’è Eucarestia se non c’è ebbrezza. Il ringraziamento nasce da un cuore che sa vivere la gioia fino in fondo. L’Eucaristia però ci chiede non semplicemente di celebrare la bellezza della nostra vita, ma ci chiede di celebrare il sacrificio della vita di Cristo stesso ed essere all’altezza di questa celebrazione e di questo sacrificio. Ci chiede di diventare corpo spezzato e donato, come lo è il corpo di Cristo: spezzato e donato. Non è un caso che gli orientali quando raffigurano la nascita di Gesù lo immaginano posto non tanto in una greppia, quanto in una sorta di tomba: perché quel corpo deposto nella mangiatoia, già anticipa una deposizione che avverrà solo quando il corpo di Gesù, spezzato e dato, sarà deposto nel sepolcro.

L’apice della vita cristiana è imparare non semplicemente a sanare il corpo degli altri con la nostra misericordia, con il nostro amore, non è semplicemente ricevere piacere dagli altri e donare piacere agli altri ma imparare a donarsi, nella forma che Gesù ci ha mostrato e indicato che è appunto la forma di colui che fa cinque passi indietro piuttosto che l’altro non sia, di colui che per essere sé stesso ha bisogno che l’altro sia, ha bisogno cioè di donarsi fino in fondo. Di fronte a tutte le crisi che la cultura contemporanea pone di fronte ai nostri occhi riguardo alla nostra identità e al nostro corpo abbiamo qui una grande risposta. Tutte le volte che andiamo a Messa e riceviamo l’Eucaristia sappiamo che quel corpo spezzato e donato diventa il nostro corpo, anche a seconda di quanto noi tutti siamo capaci di diventare una cosa sola. Allora quell’alimento, quell’energia diventa circolo vitale non più per un corpo solo ma per una moltitudine. Infatti, si dice un “corpo spezzato e dato per molti”, e quando da tanti si diventa un corpo solo ecco che si rientra nel progetto originario di Dio che ha creato l’uomo con tanta diversità, tante culture, tante religioni, tante lingue diverse. Ma il progetto di Dio è fare di tutta l’umanità un corpo solo il cui capo è appunto Cristo; e quando noi ci chiamiamo Chiesa, ci chiamiamo anche corpo mistico di Cristo. In fondo, Cristo ha portato nella sua risurrezione una novità nella realtà stessa di Dio che è un corpo umano, ma ha portato anche una novità nella storia umana: è un corpo divino che è sempre presente là dove sono presenti i suoi fratelli, là dove è presente la sua ecclesia, ovvero la sua assemblea.

 


Cominciamo questo cammino facendoci pertanto queste domande:

Che valore ha il mio corpo?

Che valore ha il corpo di quelli che ho al mio fianco?

Che rapporto ho con il corpo di Cristo che io ricevo nell’Eucarestia ma che scopro nel povero, nel sofferente, in chi ha bisogno del mio contatto che sana, così come nella comunità cristiana?

Sono uno che si lascia spezzare per essere donato o sono uno che spezza gli altri per non donarsi?

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