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LA PAROLA DI DIO NON E’ INCATENATA

LA PAROLA DI DIO NON E’ INCATENATA

ESERCIZI SPIRITUALI DI AVVENTO 2018

ESSERE CORPO

Lunedì 26 novembre - 1° incontro

Brano introduttivo tratto da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera.

“Teresa è quindi nata da una situazione che rivela brutalmente l’inconciliabile dualità, di corpo e ani ma, esperienza umana fondamentale. Tanto tempo fa, l’uomo ascoltava, con stupore un suono di colpi regolari che veniva dal suo petto e non si immaginava certo che cosa fosse. Non riusciva a identificarsi con una cosa tanto estranea e sconosciuta come un corpo. Il corpo era una gabbia e al suo interno c’era qualcosa che guardava, ascoltava, aveva paura, rifletteva e si stupiva; questo qualcosa, questo resto lasciato dalla sottrazione del corpo, era l’anima. Oggi, ovviamente, il corpo non è più uno sconosciuto: sappiamo che ciò che batte nel petto è il cuore, e che il naso è l’estremità di un tubo che sporge dal corpo per portare ossigeno ai polmoni. Il viso non è che un quadro di comando dove vanno a sfociare tutti i meccanismi del corpo: la digestione, la vista, l’udito, la respirazione, il pensiero. Da quando l’uomo sa nominare ogni sua parte, il corpo lo preoccupa meno. Ormai sappiamo anche che l’anima non è che un’attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori moda. Ma basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino, perché l’unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell’età della scienza, svanisca di colpo.

Lei cercava di vedere sé stessa attraverso il proprio corpo. Per questo stava così spesso davanti allo specchio. E avendo paura essere sorpresa dalla madre, gli sguardi che dava allo specchio avevano il marchio di un vizio segreto. Quello che l’attirava verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio io. Dimenticava che stava guardando il quadro di comando dei meccanismi del corpo. Credeva di vedere la sua anima che le si rivelava nei tratti del suo viso. Dimenticava che il naso non è che l’estremità di un tubo che porta aria ai polmoni. In esso vedeva l’espressione fedele del proprio carattere. Si guardava a lungo e a volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei stessa. Quando ci riusciva, era un momento di ebbrezza: l’anima saliva sulla superficie del corpo come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le meni verso il cielo e canta.”


LETTURA BREVE

Mt. 3, 13-17

13In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia». Allora Giovanni acconsentì. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».

 

Abbiamo un corpo o siamo un corpo? Questa è la domanda che ci pone la pagina che abbiamo appena ascoltato, tratta da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, romanzo scritto durante la primavera di Praga, al tempo dell’invasione russa che racconta la vicenda di due personaggi, un chirurgo donnaiolo e una ragazza di nome Teresa. Il primo simboleggia la leggerezza del vivere che non vuole prendersi responsabilità ma che col tempo perderà leggerezza. La seconda simboleggia la pesantezza del vivere rappresentata dal rapporto con la madre.

Abbiamo ascoltato l’esperienza di Teresa, il rapporto con il suo corpo che sembra essere molto adolescenziale nel modo con cui ella lo vede allo specchio. Quante volte anche noi ci ritroviamo a guardare lo specchio e ci domandiamo se siamo veramente noi, se quello che vediamo corrisponde alla vitalità che abita nel nostro cuore o al contrario se il nostro cuore stanco si riconosce nel fisico ancora giovane che vediamo nello specchio.

I momenti della vita sono scanditi da questa dualità, del rapporto con il nostro corpo, che da una parte è noi stessi e dall’altra sembra non appartenerci fino in fondo. Sono soprattutto i momenti di crisi che sembrano insinuare una divisione, una spaccatura tra queste due dimensioni. Nel testo di Kundera sentivamo un riferimento alla cultura contemporanea nella quale lo spazio dell’anima sembra sempre più venire sottratto da una scienza che ci insegna la profonda compenetrazione tra l’aspetto psicologico e l’aspetto fisiologico. Tutto quello che gli antichi rappresentavano in forma di mistero, addirittura lo stesso battito del cuore, il mistero di svegliarsi respirando, quello che un bambino è chiamato a fare per abbracciare la vita che gli si fa incontro, tutte queste dinamiche erano antropologicamente lette come dimensione del simbolico, del mistero, del sacro, qualcosa avvolto da una dimensione più grande di noi che ci sovrasta pur abitandoci. Oggi la scienza ci aiuta invece a leggere queste dinamiche in maniera fisiologica e talvolta materialistica e deterministica. Soprattutto gli studi delle neuroscienze ci insegnano come le nostre emozioni vengano da qualche soluzione chimica, da qualche dipendenza da ormoni, da elementi biologici e allora tutto quello che ci sembra essere l’ambito dell’immaginifico, della psiche, dell’anima della persona sembra sempre più ridotto a qualcosa di descrivibile in maniera sempre più concreta e talvolta materialistica. Se pensiamo anche ai grandi risultati della medicina, soprattutto di quella occidentale rispetto alle medicine orientali che hanno sempre cercato di mantenere un’idea di unità del corpo e dell’anima, ci rendiamo conto che la medicina occidentale senza l’anatomopatia non si sarebbe mai sviluppata. Ma cos’è l’anatomopatia se non dividere un corpo e trattarlo come un insieme di parti? La medicina ha bisogno di sezionare per riuscire ad operare e mentre seziona divide una realtà unitaria e rischia di perdere il suo insieme. La cultura di oggi ci porta a focalizzarci sul particolare perdendo di vista l’insieme: così anche il corpo perde sempre di più la dimensione del mistero e acquista sempre più la figura di un insieme di parti.

Mentre navighiamo in questa cultura, che trova eco nelle pagine di Kundera, come cristiani dobbiamo chiederci quale immagine del corpo abbiamo e soprattutto che cosa ci dice il vangelo del battesimo di Gesù, quello che abbiamo appena ascoltato, che cosa ci dice a proposito del corpo di Gesù e quindi che cosa può dirci del nostro corpo.

Le nostre tre serate, che ho intitolato “essere corpo”, “essere anima”, “farsi storia”, sono collegate l’una all’altra per arrivare a descrivere in termini contemporanei il senso del mistero e del dogma dell’Incarnazione.

Ci avviciniamo al Natale che non è semplicemente il prendere corpo di Dio, ma diventare corpo, essere corpo da parte di Dio. Questo dovrebbe colpirci e sconvolgerci. Per noi cristiani, infatti, l’Incarnazione non è semplicemente prendere su di sé un vestito che poi può essere tolto, ma è entrare nelle più intime dinamiche della storia: è diventare una personalità, una vicenda umana, avere delle fattezze particolari. Per questo motivo molti mistici e santi pensavano e pregavano Maria mentre osservavano le icone di Gesù, perché capivano che anche nelle fattezze di Gesù c’era in qualche modo una traccia delle fattezze di Maria. Così come nel nostro corpo ci sono tracce delle fattezze dei nostri genitori. Questa dinamica del “prendere corpo” da parte di Dio, di “essere corpo” da parte di Dio, significa davvero mischiarsi con vicende umane singole e particolari.

Mi fermo su questo punto dal momento che viviamo in un’epoca utilitaristica; non siamo più ai tempi dei primi cristiani che facevano lotte e dispute pur di dire la loro sull’identità e il mistero di Dio. A noi dell’identità di Dio interessa poco, purtroppo! Ci interessa piuttosto capire cosa implichi l’identità di Dio sul nostro versante. Cercherò in queste sere, comunque, di affrontare il mistero di Dio attraverso tre passaggi, sempre però con la riflessione di come il mistero - nella sua luce e talvolta nella sua ombra, perché il mistero rimane qualcosa di insondabile - ci raggiunge ed è capace di leggere la nostra realtà umana e quindi anche la nostra realtà corporale.

Entriamo nel vivo del vangelo che abbiamo appena letto: riguarda il corpo di Gesù che emerge dopo il battesimo dalle acque del Giordano. La storia dell’arte si è scatenata su questa pagina non fosse altro perché dava la possibilità di raffigurare l’anatomia maschile in tutta la sua bellezza e anche in tutta la sua armonia, mettendo in evidenza anche l’aspetto sessuale di Gesù, che non si incarna in una persona generica ma si incarna in una persona di sesso maschile. Il battesimo diventa l’occasione per mostrare nella nudità di Gesù che emerge dall’acqua l’anticipazione di quella che sarà la nudità finale di Gesù stesso sulla croce. Sono due nudità altamente simboliche, che sono poste in dialogo tra di loro e che, a loro volta, si distinguono da un’altra nudità che troviamo nella Bibbia, quella di Adamo, Adamo l’uomo creato da Dio ma già corrotto dalle sue scelte, che si ritrova ad essere nudo non perché innocente ma perché si ritrova schiavo. Lo schiavo infatti era nudo perché non aveva la capacità e la possibilità di coprirsi ma doveva semplicemente badare al suo lavoro e non al suo corpo che diventava oggetto meccanico per il compimento di opere volute da altri.

Gesù, invece si presenta come nuovo Adamo, nella sua nudità. Nella bellezza del suo corpo mostra un’innocenza ancora possibile perché proviene da Dio. Entrando nelle acque del battesimo anche noi possiamo ricevere in qualche modo l’innocenza che il corpo di Cristo, corpo santo, è capace di emanare. E’ proprio su questa dimensione che vorrei riflettere anche in relazione a ciò che la liturgia ambrosiana, ma non solo, ha pensato al riguardo nel tempo dell’Epifania. Le Messe del tempo dell’Epifania, soprattutto nei prefazi, richiamano alla memoria dei fedeli tre episodi successivi che riguardano la vicenda umana di Gesù e, in modo particolare, il modo di porsi del suo corpo in tre episodi considerati epifanici cioè che manifestano il volto cristiano di Dio. Gli episodi sono il battesimo di Gesù, le nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani.

Entriamo in queste vicende chiedendoci qual è la funzione del corpo di Gesù così come il Vangelo ce la presenta.

Il battesimo di Gesù. I Padri della Chiesa avevano avuto una grandissima intuizione: secondo loro una volta che il corpo del Figlio di Dio è entrato nelle acque, tutte le acque della terra sono risultate benedette. I Padri della Chiesa, tra cui anche Ambrogio, riflettevano sul fatto che ricevere il battesimo significa entrare nell’acqua che è già stata segnata dalla presenza di Dio. L’immagine che i Padri della Chiesa ci consegnano è quella di un corpo, quello di Cristo, capace di sanare; dunque, un corpo che sana. Nel contesto della cultura contemporanea che nel tentativo di leggere in continuità l’anima e il corpo non riesce più a capire il di più di esperienze fondamentali come l’innamoramento, la malattia, la morte, la crisi, momenti in cui anima e corpo sembrano non dialogare più così tanto bene, in questo specifico contesto che cosa significa un corpo che sana? Un corpo che sana significa il desiderio di Gesù di farsi vicino ai peccatori: il battesimo è questo. Gesù non aveva bisogno di essere purificato dai peccati ma voleva manifestare il desiderio di Dio di essere insieme agli peccatori fino in fondo. Anche la posizione geografica in cui avviene questo episodio, a suo modo lo dice: il battesimo avviene nel Giordano, il punto più basso nella geografia della Terra di Israele, è la depressione più grande quasi a dire che è una sorta di anticipo della discesa di Gesù agli inferi. Fin dall’inizio della sua missione apostolica ed evangelica, Gesù vuole condividere il destino degli ultimi e degli abbandonati, dei peccatori, e si spinge fino in fondo nella voragine del peccato umano per sanarlo alla sua radice. Il corpo di Gesù comincia qui a mostrarsi come un corpo che è capace di trasformare il corpo delle altre persone attraverso il suo tocco, attraverso la sua carezza, attraverso la sua tenerezza e intimità. Gesù ci mostra come anche il nostro corpo, anche se preso dalle dinamiche di peccato e per questo non riesce a “venirci dietro”, fa fatica a portarci avanti nella vita di tutti i giorni; nonostante tutto ciò il nostro corpo è potenzialmente sacramento della tenerezza di Dio. A questo proposito pensiamo a tutte le parole spese da papa Francesco quando dice che non dobbiamo avere paura della tenerezza e del nostro corpo e che quando ci chiediamo che cosa siamo, c’è sempre una risposta possibile: non siamo semplicemente un qualcosa, che si limita ad agire strumentalmente, ma possiamo trasformare la realtà intorno a noi, soprattutto la realtà dei corpi vicini a noi prendendoci cura in particolare dei malati, dei morenti, dei sofferenti.

Fin dall’inizio Gesù si manifesta come medico delle nostre anime e dei nostri corpi, un medico molto diverso dai medici di oggi. Lui sa vedere le malattie dell’anima nel corpo e le malattie del corpo nell’anima e sa far dialogare questi due elementi senza scinderli ma vedendo in essi una profonda unità e anzi riportando unità là dove c’è dissidio.

Il secondo episodio, sempre connesso a questa dimensione epifanica, è quello delle nozze di Cana. Qui vediamo che Gesù, anche grazie all’intervento di Maria, è un corpo che celebra, non solo un corpo che sana: un corpo che celebra e sa vivere l’ebbrezza dei rapporti; sa anche portare ebbrezza là dove rischia di nascere la tristezza. A questo proposito non possiamo tacere una realtà fondamentale: siamo tutti persone con un eros che è disegnato nel profondo dei nostri corpi. Eros e agape andrebbero meglio declinati e correlati. Ricordiamo ad esempio l’episodio del bacio al lebbroso di San Francesco, che noi abbiamo sempre visto come un pio episodio ma è piuttosto un episodio epifanico. Francesco, poco prima di baciare lebbroso si era spogliato nudo davanti al vescovo. Ebbene nudità e bacio sono due simboli profondamente erotici ma Francesco ci mostra come queste due dimensioni, quando sono vissute in Dio e per Dio, non dicono il contrario di ciò che Dio vuole. Senza eros, senza una spinta, un’attrazione nei confronti dell’altro non c’è carità possibile. Provare attrazione per un lebbroso è un po’ un paradosso ma in questo Francesco ci mostra propriamente come la natura dell’eros più ancora che l’agape sia quella di essere “amanti dell’amore”, molto di più della sola dimensione corporea dell’altro. Senza essere folli per l’amore, i santi della carità non avrebbero mai avuto la forza di uscire da sé stessi e andare incontro e toccare con mano il corpo macilento di un malato. In questo ci aiuta anche un grande pensatore russo, Vladimir Solov’ëv, il quale diceva che senza il sentimento erotico, senza il bisogno sessuale, l’uomo rimarrebbe una monade chiusa in sé stesso. Il desiderio sessuale, dunque, è una forza essenziale che ci porta ad uscire necessariamente da noi stessi. Quando l’eros è vero ci prende e ci fa uscire dal nostro piccolo mondo. Non c’è ambiguità quando l’amore è concepito in continuità con il volere di Dio. Tutto questo ci chiede di domandarci: come vivo il mio corpo e come vivo il corpo dell’altro? Lo vivo solo come un peso o lo vivo anche come un dono e un piacere? Sono capace di celebrare la vita nel donare piacere all’altro e nel ricevere piacere dall’altro? Questa è una dimensione assolutamente essenziale nella vita cristiana soprattutto se si è sposi, anche quando si è avanti negli anni. Chi non ha il senso del piacere non sa celebrare la vita, non sa lodare Dio; soprattutto nei momenti più alti di cui Dio ci ha fatto dono, come quello dell’incontro sessuale tra uomo e donna.

Lo sposalizio di Cana richiama tutto questo nella sua simbologia: c’è l’incontro tra due persone, c’è il dono del vino nel quale viene trasformata l’acqua che, pur nella sua purezza, non è più capace di dire la pienezza del dono di Dio. È interessante questo passaggio: dall’acqua del battesimo simbolo di purezza, alla crescita nella simbologia verso l’ebbrezza del vino. Uno che cresce nel suo cammino cristiano deve passare attraverso le acque della purificazione del battesimo e crescere verso l’ebbrezza della celebrazione, saper lodare Dio persino di fronte alla morte. San Francesco chiamava la morte come la sua sposa, sua sorella. Senza eros non riusciamo neanche a morire perché nei confronti della morte non riusciamo a vincere la paura se non ne abbiamo un profondo desiderio: un desiderio che non è nichilista, ma la voglia di scoprire cosa c’è oltre, cosa si aprirà di fronte alle nostre esistenze. Senza questo eros, anche nei confronti dell’aldilà, non riusciremo mai a celebrare la vita di ogni giorno perché altrimenti la vita sarà solo un peso e la paura della morte sarà ad ogni angolo a minacciare l’integrità del nostro vivere.

L’ultimo episodio è la moltiplicazione dei pani. In Gesù contempliamo il mistero di un corpo che si dona. La moltiplicazione dei pani è un segno connesso anche alla dimensione eucaristica. Non c’è Eucarestia se non c’è ebbrezza. Il ringraziamento nasce da un cuore che sa vivere la gioia fino in fondo. L’Eucaristia però ci chiede non semplicemente di celebrare la bellezza della nostra vita, ma ci chiede di celebrare il sacrificio della vita di Cristo stesso ed essere all’altezza di questa celebrazione e di questo sacrificio. Ci chiede di diventare corpo spezzato e donato, come lo è il corpo di Cristo: spezzato e donato. Non è un caso che gli orientali quando raffigurano la nascita di Gesù lo immaginano posto non tanto in una greppia, quanto in una sorta di tomba: perché quel corpo deposto nella mangiatoia, già anticipa una deposizione che avverrà solo quando il corpo di Gesù, spezzato e dato, sarà deposto nel sepolcro.

L’apice della vita cristiana è imparare non semplicemente a sanare il corpo degli altri con la nostra misericordia, con il nostro amore, non è semplicemente ricevere piacere dagli altri e donare piacere agli altri ma imparare a donarsi, nella forma che Gesù ci ha mostrato e indicato che è appunto la forma di colui che fa cinque passi indietro piuttosto che l’altro non sia, di colui che per essere sé stesso ha bisogno che l’altro sia, ha bisogno cioè di donarsi fino in fondo. Di fronte a tutte le crisi che la cultura contemporanea pone di fronte ai nostri occhi riguardo alla nostra identità e al nostro corpo abbiamo qui una grande risposta. Tutte le volte che andiamo a Messa e riceviamo l’Eucaristia sappiamo che quel corpo spezzato e donato diventa il nostro corpo, anche a seconda di quanto noi tutti siamo capaci di diventare una cosa sola. Allora quell’alimento, quell’energia diventa circolo vitale non più per un corpo solo ma per una moltitudine. Infatti, si dice un “corpo spezzato e dato per molti”, e quando da tanti si diventa un corpo solo ecco che si rientra nel progetto originario di Dio che ha creato l’uomo con tanta diversità, tante culture, tante religioni, tante lingue diverse. Ma il progetto di Dio è fare di tutta l’umanità un corpo solo il cui capo è appunto Cristo; e quando noi ci chiamiamo Chiesa, ci chiamiamo anche corpo mistico di Cristo. In fondo, Cristo ha portato nella sua risurrezione una novità nella realtà stessa di Dio che è un corpo umano, ma ha portato anche una novità nella storia umana: è un corpo divino che è sempre presente là dove sono presenti i suoi fratelli, là dove è presente la sua ecclesia, ovvero la sua assemblea.

 


Cominciamo questo cammino facendoci pertanto queste domande:

Che valore ha il mio corpo?

Che valore ha il corpo di quelli che ho al mio fianco?

Che rapporto ho con il corpo di Cristo che io ricevo nell’Eucarestia ma che scopro nel povero, nel sofferente, in chi ha bisogno del mio contatto che sana, così come nella comunità cristiana?

Sono uno che si lascia spezzare per essere donato o sono uno che spezza gli altri per non donarsi?