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La Catechesi Adulti

Catechesi 2018-19

 

 Di seguito i documenti degli incontri:

 

FARSI STORIA

ESERCIZI SPIRITUALI DI AVVENTO 2018

FARSI STORIA

Mercoledì 28 novembre - 3° incontro

Brani tratti dal libro: “Ragazzi di vita” di Pierpaolo Pasolini

«A Genè, nun rivenghi de qua-a?» continuava intanto a ridare con voce accorata Mariuccio. Genesio a quei richiami se ne stava zitto; poi tutt’a un botto si gettò in acqua, nuotò fino al correntino, ma però tornò subito indietro e si risiedette ammusolito sotto la scarpata e il muraglione.

«Nun torni a Genè?» ripeté Mariuccio, deluso da com’erano andate le cose.

«Rimano de qqua ancora un pochetto», disse di laggiù Genesio, «se sta tanto bbene de qqua!»

«Daje, traversa!» insistette Mariuccio con le corde del collo che gli si gonfiavano per lo sforzo che faceva a gridare. Pure Borgo Antico si mise a chiamarlo, e Fido abbaiava saltando di qua e di là, ma col muso sempre rivolto all’altra sponda, come se chiamasse pure lui.

Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e poi gridò: «Conto fino a trenta e me butto.» Stette fermo, in silenzio, a contare, poi guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera ancora tutta ben pettinata; infine si buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla svelta fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la curva svoltando verso il ponte della Tiburtina. Ma lì la corrente era forte, e spingeva indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata Genesio era riuscito a passare facile il correntino, ma adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava lui, alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire avanti: la corrente, tenendolo sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giù verso il ponte.

«Daje, a Genè», gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano perché Genesio non venisse in avanti, «daje che se n’annamo!»

Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume, di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume. Ci re-stava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù verso il ponte. Borgo Antico e Mariuccio col cane scapitollarono giù dalla gobba del trampolino, e cominciarono a correre svelti, a quattro zampe quando non potevano con due, cadendo e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando dietro a Genesio che veniva portato sempre più velocemente verso il ponte. Così il Riccetto, mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa come un’ombra, a strofinare le lastre, se li vide passare tutti e tre sotto i piedi, i due piccoli che ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al fiume, che non cessava di muovere le braccine svelto svelto nuotando a cane, senza venire avanti di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come stava giù verso l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lì si fermò a guardare quello che stava succedendo sotto i suoi occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero; ma poi capì e si buttò di corsa giù per la scesa, scivolando, ma nel tempo stesso vedeva che non c’era più niente da fare: gettarsi a fiume lì sotto il ponte voleva proprio dire esser stanchi della vita, nessuno avrebbe potuto farcela. Si fermò pallido come un morto. Genesio ormai non resisteva più, povero ragazzino, e sbatteva in disordine le braccia, ma sempre senza chiedere aiuto. Ogni tanto affondava sotto il pelo della corrente e poi risortivi un poco più in basso; finalmente quand’era già quasi vicino al ponte, dove la corrente si rompeva e schiumeggiava sugli scogli, andò sotto per l’ultima volta, senza un grido, e si vide solo ancora per un poco affiorare la sua testina nera.

Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva sotto il braccio, senza più guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora un po’ li fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da sotto il ponte Borgo Antico e Mariuccio che urlavano e piangeva-no, Mariuccio sempre stringendosi contro il petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire aiutandosi con le mani su per la scarpata.

«Tajamo, è mejo», disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui, incamminandosi in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; andava anzi quasi di corsa, per arrivare sul ponte prima dei due ragazzini. «Io je vojo bbene ar Riccetto, sa!» pensava. S’arrampicò scivolando, e aggrappandosi ai monconi dei cespugli su per lo scoscendimento coperto di polvere e di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi indietro, imboccò il ponte. Poté tagliare inosservato, perché, sia nella campagna che si stendeva intorno abbandonata, verso i mucchi di casette bianche di Pietralata e Monte Sacro, sia per la Tiburtina, in quel momento, non c’era nessuno; non passava neppure una macchina o uno dei vecchi autobus della zona; in quel gran silenzio si sentiva solo qualche carro armato, sperduto, dietro i campi sportivi di Ponte Mammolo, che arava col suo rombo l’orizzonte.”

 LETTURA BREVE

Lc. 4, 16-30

16Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19 predicare un anno di grazia del Signore.
20Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 22Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». 23Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!». 24Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. 25Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro».
28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.

Siamo giunti alla fine del nostro itinerario di tre sere. Questa sera vi propongo una riflessione a partire dal romanzo scritto da Pasolini, un artista di cui, nonostante il suo pensiero per certi versi non sia sempre condivisibile da parte di un cattolico, possiamo certamente accogliere la testimonianza profetica almeno per quanto riguarda la capacità di dar voce ai poveri, alle periferie, agli ultimi e ai dimenticati.

Mentre stiamo riflettendo sull’incarnazione, mi sembra interessante dare spazio ad una testimonianza letteraria come quella di Pasolini. Friulano di nascita, Pasolini si è talmente inserito nella dinamica della vita di Roma e delle sue periferie da assorbire completamente il linguaggio e la vita del popolo. Anche il narratore parla in “romanesco” proprio perché c’è una sorta di immersione, sottomissione alla cultura in cui egli si inserisce. Ma mettiamo, almeno per ora, da parte Pasolini.

Questa sera vi chiedo un po’ di pazienza in più perché vi proporrò un esercizio di elasticità mentale abbastanza complesso.

Guardiamo anzitutto al vangelo che abbiamo letto: di che cosa si tratta in questo vangelo? C’è la prima uscita pubblica di Gesù: Gesù ormai diventato adulto, proclama la parola di fronte al suo popolo, apre il rotolo del profeta Isaia e non soltanto pronuncia le parole come qualsiasi ragazzo arrivato all’età matura avrebbe fatto ma incomincia a commentare la parola attribuendo queste parole come dirette e riferite a sé. Tutti inizialmente lo guardano con stupore. Il problema è che il suo commento continua, non semplicemente in riferimento al profeta Isaia, ma citando alcune pagine dell’Antico Testamento dove persone pagane, come una vedova di Sarepta e Naaman il Siro, si erano mostrate più ricche di fede che non il popolo di Israele. Di fronte a questa lettura inedita, non semplicemente originale e creativa, ma anche profondamente provocatoria, l’uditorio si scatena e, dallo stupore e dall’ammirazione nei confronti delle parole di Gesù, diventa assolutamente aggressivo fino a tentare di ucciderlo.

Attraverso questo vangelo vediamo e seguiamo i primi passi di Gesù, il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, che, incarnandosi, si fa Storia con la esse maiuscola, ma si fa Storia diventando anzitutto storia con la esse minuscola ovvero qualcuno di cui almeno si può raccontare, o narrarne addirittura la biografia.

Dio traccia i segni della sua presenza nella biografia di tutti noi, lo sappiamo, ne siamo coscienti e questo avviene a maggior ragione a proposito del Figlio di Dio: nel momento in cui egli, entrando nel mondo e parlando, comincia indirettamente il racconto della sua vita, divenendo per gli altri non semplicemente “Parola” nel senso di una cosa che si deve ricevere senza interagire con essa; piuttosto una Parola intesa come racconto, così come la suggestione delle pagine letterarie alluse in queste sere dovrebbe avervi fatto percepire: il racconto lo si “comprende” solo entrandoci e partecipandovi attivamente. Gesù si fa Parola nel senso che si fa anzitutto “storia” di modo che le persone possano entrare tutte nella dinamica della sua biografia.

Dio sa dipingere le nostre vite nel quadro di vicende già scritte.

Cosa fa Gesù? Gesù apre un rotolo della legge, proclama una parola pronunciata secoli prima e la attualizza in riferimento alla sua persona. Così funziona la Scrittura. Quando leggiamo la Parola di Dio abbiamo di fronte sempre due possibilità: quella di usarla o meglio di adoperarla in maniera indebita o quella di lasciarci coinvolgere da essa. Quando siamo realmente autentici e non cerchiamo una giustificazione alle nostre paure piuttosto che ai nostri errori ma ci lasciamo davvero mettere in discussione dalla Parola di Dio, essa comincia a parlarci nel profondo di noi, tanto che noi ci sentiamo inseriti nel quadro di senso disegnato dalla Parola stessa; motivo per cui le vicende dei profeti, dei patriarchi o degli apostoli cominciano a parlarci tanto che quasi incominciamo a leggere la nostra vita in riferimento alla loro e vediamo in esse come in noi l’opera di Dio come in filigrana: intendiamoci, Mosé è Mosè, Abramo è Abramo, a loro sono successe cose straordinarie e difficilmente ripetibili. Ma un po’ dell’esperienza di fede di Mosè o quella della prova di Abramo le sentiamo nostre; anche se a noi non viene chiesto di sacrificare nostro figlio, molte volte ci sentiamo messi alla prova da Dio in persona e non semplicemente dalle fatiche dell’esistere. Perciò riandare alle vicende di chi ci ha preceduto e di cui la Sacra Scrittura ci parla, permette di cogliere un senso più profondo della nostra esistenza, direi quasi un senso “sacro”. La Scrittura, così come fa Gesù, ci permette dunque di leggere le tracce della presenza di Dio nella nostra biografia.

Le nostre vite, come quella dei santi, incominciano a parlare - perché non parlano semplicemente le parole - in qualche modo, anche con le nostre storture, esse urlano la Parola di Dio che si sta facendo carne nella nostra vita e nella nostra esistenza. Se non al modo di Gesù almeno al modo dei personaggi della Bibbia. Personalmente io mi sento benedetto tutte le volte che incontro la figura di Pietro, soprattutto quando incontro la descrizione del suo rinnegamento e la descrizione dello sguardo di misericordia che, secondo il vangelo di Luca, Gesù ha rivolto a Pietro proprio nel momento più tragico del suo rinnegamento. Leggere le nostre dinamiche umane, psicologiche e spirituali, con gli occhi degli apostoli ci permette di comprendere ancora di più la vicinanza di Dio alla nostra vita.

Il tema dell’imitazione dei santi o addirittura dell’imitazione di Cristo è un cardine della spiritualità cristiana in genere. L’Imitazione di Cristo è, nel suo genere, una delle opere più significative che ha dato vita da una catena tradizione testuale di devozione che ha segnato profondamente l’Occidente cristiano. È un libretto che vi consiglio di leggere perché ogni buon cristiano dovrebbe conoscerlo. Si rischia molto, però, se lo si legge in senso volontaristico o moralistico, come se noi dovessimo a tutti i costi sforzarci di vivere come Gesù ha vissuto. Questo è pressoché impossibile perché: primo, non siamo figli di Dio così come lo è lui; secondo, la nostra volontà anche se forte e eroica, in ogni caso non riuscirà mai a giungere al livello di Cristo. Ma l’imitazione di Cristo è comunque possibile, sebbene solo attraverso una dinamica del tutto interiore: i santi, soprattutto i mistici come ad esempio Teresa d’Ávila, ci mostrano come l’imitazione di Cristo cominci là dove noi ammettiamo la nostra debolezza, il nostro peccato e permettiamo a Dio di incominciare ad abitare nel profondo di noi. L’imitazione di Cristo è la risposta che la presenza di Cristo nella nostra vita e nel nostro cuore genera; è il frutto del prendere dimora di Dio in noi secondo la promessa che Gesù ha fatto nel Vangelo di Giovanni “io e il Padre prenderemo dimora presso di voi”. Da qui nasce l’imitazione di Cristo: solo se noi lasciamo che il nostro cuore - nell’Eucarestia, nell’adorazione, nella preghiera silenziosa, nell’impegno per i poveri - sia sempre più dimora di Dio. Allora l’imitazione ci verrà naturale, magari non ce ne accorgeremo, e saranno gli altri a dirci che siamo fedele immagine e somiglianza di Dio, immagine e somiglianza di Cristo, icona di Dio in questo mondo.

Dunque, anche noi possiamo diventare Storia con la esse maiuscola se lasciamo che le nostre storie siano trasformate da Dio. Tuttavia, c’è un rischio anche qui, perché mentre ci rifacciamo alla vita dei santi e alla vita stessa di Gesù per leggere le categorie e le dinamiche della nostra esistenza di tutti i giorni, non dobbiamo perdere di vista la nostra originalità. C’è un bellissimo detto degli ebrei Chassidim che dice: “alla fine dei tempi, quando ti troverai di fronte a Dio non ti verrà chiesto se sei stato Abramo, Mosé, o Giacobbe, ti verrà chiesto se sei stato te stesso”. È una cosa bellissima quanto questo detto ci ricorda: se Abramo, Giacobbe, Isacco, o chiunque nell’Antico Testamento o nel Nuovo Testamento ci può permettere di leggere alcune dinamiche spirituali della nostra stessa esistenza, comunque ognuno di noi è chiamato a essere profondamente sé stesso, è chiamato a esprimere quel di più che soltanto la sua storia può portare a questo mondo.

Le vicende dei santi bisogna conoscerle, bisogna farsi amici dei santi, perché non semplicemente ripropongono la vita apostolica di sempre, ma aggiungono sempre un qualcosa di più attraverso la scintilla della loro personale dedizione a Dio. Dio manifesta un tratto della sua originalità proprio nella dinamica specifica della vita di un santo. Dio è geloso degli idoli ma non dei santi. Dio non è geloso della persona umana che decide di lasciarsi abitare da lui, anzi preferisce fare un passo indietro perché il santo venga glorificato in Suo nome. Talvolta la teologia—e in questo Papa Francesco ci ha insegnato a riconoscerlo—ha sottovalutato la devozione popolare nei confronti dei santi, perché non sempre l’ha compresa. E’ come se noi avessimo pensato per decenni, specie nella fase postconciliare, che il popolo di Dio amando i santi in fondo non amasse veramente Gesù o la Trinità. Certo, c’è pur sempre rischio di idolatrare i santi e questo va osteggiato. Molto più spesso, però, il popolo di Dio nella sua immediatezza e semplicità è stato capace di vedere una luce unica nella vicenda dei santi, quell’originalità che Dio è capace di mostrare nella storia di un santo e solo in quella. Farsi amici dei santi non significa dimenticare la gerarchia degli articoli di fede, non significa non adorare la Trinità o non capire il ruolo unico della mediazione di Cristo, ma piuttosto constatare come Dio ci accompagna passo dopo passo in questa Storia, continuando a parlarci in maniera originale e unica.

Ieri abbiamo affrontato una storia a partire dalla sua fine: la vicenda del principe di Salina, il Gattopardo. L’abbiamo vista in retrospezione partendo da questa l’intuizione: le storie per essere belle, per essere raccontabili devono avere una fine, devono avere una meta verso cui camminare altrimenti i singoli passaggi perdono il senso. Con la riflessione di questa sera siamo chiamati a fare, per certi versi, un percorso inverso: le storie hanno senso non soltanto perché hanno una fine ma anche perché si comincia a camminare da un punto iniziale verso quella stessa fine e quel fine. Perciò ora facciamo il procedimento al contrario e dirigiamoci idealmente verso l’inizio, verso il Natale che non è altro che l’inizio, il grande inizio della storia di Cristo e di certo il grande inizio di una Storia che è già in mezzo a noi ma è ben più grande di noi.

Che cosa dice della storia di Gesù e della persona di Gesù il suo inizio, l’inizio della sua vita, il suo Natale? Egli si è fatto bambino, si è fatto corpo, e qui mi riallaccio alla prima serata, un corpo che sana, un corpo che celebra e un corpo che si dona. Gesù facendosi bambino, però, percorre al contrario questo itinerario che abbiamo ampiamente illustrato: come prima cosa egli si dona, poi permette agli altri di celebrare la sua venuta (pensate ai pastori che sono i primi a ricevere l’annuncio e sono tutti pieni di gioia o pensate agli angeli in cielo che cantano la gloria di Dio); infine, Gesù, che si è donato bambino e ha permesso così agli altri di celebrare la vita, ha trasformato la realtà attorno a sé, diventando una presenza che sana. Non limitiamoci a contemplare la vicenda del Natale di Gesù: basterebbe rifarci alla dinamica di una famiglia segnata dalla fatica o dal lutto che improvvisamente si trovi a accogliere una nuova vita. Quante volte ho visto nel mio ministero la benedizione del Signore discendere su alcune storie umane che ho accompagnato, segnate da un lutto e poi raggiunte dal dono magnifico della vita di un bambino che, seppur non cancella il momento tragico del distacco con un nostro caro è tuttavia capace di dare nuova energia, nuova linfa e nuova freschezza (potremmo dire con le immagini di ieri, una nuova anima!) ad un’intera famiglia. Il miracolo dei bambini!

Proprio in questi giorni abbiamo ascoltato la notizia del calo sempre più drammatico delle nascite in Italia. Il nostro è un popolo non semplicemente vecchio ma un popolo che non vuole più aprirsi alla vita per tante ragioni, difficoltà o fobie; ma è anche un popolo che dove c’è la vita come quella dei bimbi immigrati, non la sa riconoscere, non la sa rispettare e valorizzare e guarda questi bimbi che rischiano di morire in mare, prima di raggiungere la nostra terra, come se fossero dei demoni che ci strappano la nostra vita e la nostra sicurezza. Non siamo capaci come italiani di dare dei diritti fino in fondo a esseri inermi che magari scappano da guerre o situazioni micidiali.

Il bambino Gesù nella mangiatoia non si mostra come un bimbo qualsiasi, ma come un bambino povero e diseredato: egli ci invita ad aprire gli occhi verso quei bambini poveri e diseredati senza i quali non c’è futuro per il mondo intero e forse anche per noi. Se vogliamo uscire dalle nostre manie e fobie dobbiamo aprire il cuore soprattutto alla presenza di coloro che provengono da parti del mondo tanto martoriate e, soprattutto, prestare l’orecchio al bisogno dei più piccoli.

Ma per noi, cosa vuol dire questo inizio della vicenda terrena di Gesù, questo farsi bambini? Quando pensiamo all’essere bambini in senso cristiano non possiamo non ricordare il nostro Battesimo. La compresenza tra l’età infantile e il Battesimo che la prassi occidentale ha promosso è, a livello simbolico, molto significativa. Gesù nel Vangelo di Giovanni ci insegna che senza rinascere dall’alto, non possiamo entrare nel Regno dei cieli. Il Battesimo non è altro che la possibilità di ritornare bambini, di ritornare innocenti, di ricominciare da capo quando la storia va tutta nella direzione della corruzione, del disastro, della fine. C’è sempre una possibilità che Gesù stesso è venuto a portarci. E la possibilità è quella di rinascere nuovamente e solo il Battesimo ci permette questa ripartenza. Cioè, attraverso il Battesimo è come se ritornassimo nel grembo della madre terra, ci lasciassimo purificare dal sacrificio di Cristo per poi rinascere nuovamente. Quando noi accediamo al sacramento della Confessione rinnoviamo il nostro Battesimo perché ricominciamo sempre da zero, da capo, sebbene abbiamo una storia che ci precede e che un po’ ci condiziona, con il peso di tutti gli errori che abbiamo fatto e che dobbiamo gestire e a cui dobbiamo qualche volta rendere conto. Ma il sacramento ristabilisce in noi un’energia nuova che viene dall’amore stesso di Dio e dalla sua misericordia. Il Battesimo è la possibilità per noi di fare Natale tutti i giorni, di ritornare bambini, di ritornare in qualche modo se non innocenti in assoluto, almeno più innocenti di prima.

Torniamo ora a Pasolini. Perché ho scelto di leggere questo brano? Perché questo racconto pieno di vitalismo, un racconto che soltanto alla fine si capisce avere - nella storia corale di diversi ragazzi di cui si seguono le svariate vicende - un protagonista in particolare. Si tratta di diseredati che vivono quasi da briganti in una periferia caotica, confusa e inquinata. La cosa interessante è che Pasolini pone continuamente l’accento sulla questione ecologica e anche in questo è profetico: ad esempio, quando si descrive il fiume nel quale i ragazzi si bagnano e vanno a divertirsi: è un fiume lambito da una fabbrica che lo inquina e, bagnandosi, i ragazzi mettono continuamente a rischio la loro salute. Il fiume di cui abbiamo letto, nel quale avviene la fine tragica del ragazzino che volevo mostrare di saper nuotare, in accordo con la visione tragica e pessimistica della storia che ha Pasolini, diventa metafora dello scorrere delle cose verso la loro dissoluzione definitiva; non uno scorrere qualsiasi perché su quel fiume naviga tutta la corruzione di questo mondo, che Roma, la nuova Babilonia, testimonia e ripresenta. Proprio in quel fiume cerca di nuotare un bambino ma egli soccombe, mentre gli innocenti suoi fratelli cercano in qualche modo di attirare l’attenzione dei più grandi. Chi sta lì a osservare questa scena? Il protagonista principale che soltanto alla fine si mostrerà essere veramente il primus inter pares dell’intero racconto: il Ricetto, un ragazzo pieno di energia e risorse che diventa presto delinquente e ne combina di tutti i colori durante la sua vita. Egli, vedendo questo ragazzetto sparire tra le acque del fiume, sebbene sconvolto, pensa: “ma io gli voglio bene a Ricetto”, come a dire che, se non si è buttato, è perché aveva coscienza che rischiava di morire e non se l’è sentita neanche di provarci, rimanendo paralizzato sulla riva del fiume.

Ora forzando un poco la logica secondo cui Pasolini ha scritto il suo libro, vi propongo la lettura di un altro brano. All’inizio del romanzo c’è una pagina parallela a quanto abbiamo già letto. Qui il Ricetto è ancora molto giovane, è un ragazzino. Siamo non più sulla riva dell’Aniene ma su quella del Tevere, in un tratto decisamente molto pericoloso. Ricetto vede una rondine che sta affogando nel fiume e si tuffa per salvarla: lui che era ancora bambino, solo per salvare una piccola creaturina, non esita a buttarsi nel fiume, rischiando così la sua vita.

Il Riccetto guardò verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto le ali. Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei.
Gli altri si misero a gridargli dietro e a ridere: ma quello dei remi continuava a remare contro corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua: lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo specchio d’acqua stagnante, e che tentava d’acchiapparla. «A Riccettooo», gridava Marcello con quanto fiato aveva in gola, «perché non la piji?» Il Riccetto dovette sentirlo, perché si udì appena la sua voce che gridava: «Me pùncíca!» «Li mortacci tua», gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare la rondine, che gli scappava sbattendo le ali e tutti due ormai erano trascinati verso il pilone dalla corrente che lì sotto si faceva forte e piena di mulinelli. «A Riccetto», gridarono í compagni dalla barca, «e lassala perde!» Ma in quel momento il Riccetto s’era deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la riva. «Tornado indietro, daje», disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. «E che l’hai sarvara a ffà», gli disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!» Il Ricetto non gli rispose subito. «È tutta fracica», disse dopo un po’, «aspettamo che s’asciughi!» Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre.”

Solo uno che sa farsi bambino può trovare il coraggio di tuffarsi nella corrente sporca della Storia, senza provare paura e senza mettere a tacere la Speranza.

  • E tu dove hai lasciato la tua innocenza?
  • Sei cosciente che grazie al dono del Battesimo, al rinnovamento che la Confessione ci offre, la misericordia del Signore può permetterti di recuperare il senso di innocenza che avevi da bambino, salvando la tua vita e, con essa, quella degli altri e più radicalmente dando una svolta a questa Storia che corre veloce verso la dissoluzione?
  • Tu su che riva stai?

Buon Natale!!!

ESSERE ANIMA

ESERCIZI SPIRITUALI DI AVVENTO 2018

ESSERE ANIMA

Martedì 27 novembre - 2° incontro

Brano tratto dal libro “il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.

“La morte del Principe.

Luglio 1883

Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere, andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente, come i granellini si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione, questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o di introspezione: come un ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando tutto il resto tace; ed allora ci rendono sicuri che essi sono sempre stati lí, vigili, anche quando non li udivamo.

In tutti gli altri momenti gli era sempre bastato un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua mente e lo lasciavano per sempre. La sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun malessere. Anzi, questa percettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione, per così dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interni, essa non era per nulla sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio vago del riedificarsi altrove di una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga. Quei granellini sabbia non andavano perduti, scomparivano ma si accumulavano chissà dove, per cementare una mole più dura tura. Mole, però, aveva riflettuto, non era la parola esatta, pesante come era; e granelli di sabbia, d’altronde, neppure. Erano più come delle particelle di vapor acqueo che esalassero da uno stagno costretto, per andar su nel cielo a formare le grandi nubi leggere e libere. Talvolta era sorpreso che il serbatoio vitale potesse ancora conte nere qualcosa dopo tanti anni di perdite. “Neppure se fosse grande come una piramide.” Tal altra volta, più spesso, si era inorgoglito di esser quasi solo ad avvertire questa fuga continua, mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato anziano disprezza il coscritto che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste son cose che, non si sa poi perché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a lui le aveva intuite mai, nessuna delle figlie che sognavano un oltretomba identico a questa vita, completo di tutto, di magistratura, cuochi e conventi; non Stella che, divorata dalla cancrena del diabete, si era tuttavia aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi aveva per un attimo compreso, quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione, corteggi la morte.” Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo “si,” la fuga decisa, lo scompartimento del treno riservato.

Perché adesso la faccenda era differente, del tutto di versa. Seduto su una poltrona, le gambe lunghissime avviluppate in una coperta, sul balcone dell’albergo Trinacria, sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un lunedì di fine luglio, ed il mare di Palermo, compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava li sopra piantato a gambe larghe, e Io frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui.

Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. Il tramestio del porto alla par tenza e quello dell’arrivo a Napoli, l’odore acre della cabina, il vocio incessante di quella città paranoica, lo avevano esasperato di quella esasperazione querula dei debolissimi, che li stanca e li prostra, che suscita l’esaspera zione opposta dei buoni cristiani che hanno molti anni di vita nelle bisacce. Aveva preteso di ritornare per via di terra: decisione improvvisa che il medico aveva cercato di combattere; ma lui aveva insistito, e così imponente era ancora l’ombra del suo prestigio che l’aveva spuntata. Col risultato di dover poi rimanere trentasei ore rintanato in una scatola rovente, soffocato dal fumo nelle gallerie che si ripetevano come sogni febbrili, accecato dal sole nei tratti scoperti, espliciti come tristi realtà, umiliato dai cento bassi servizi che aveva dovuto richiedere al nipote spaurito. Si attraversavano paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide; quei panorami calabresi e basilischi che a lui sembravano barbarici, mentre di fatto erano tali e quali quelli siciliani. La linea ferro-viaria non era ancora compiuta: nel suo ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso plaghe lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace sorriso dello Stretto subito sbugiardato dalle riarse colline peloritane, di nuovo una svolta, lunga come una crudele mora procedurale. Si era discesi a Catania, ci si era arrampicati verso Castrogiovanni: la locomotiva annaspante su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo. All’arrivo le solite maschere di familiari con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. Fu anzi dal sor riso consolatorio delle persone che lo aspettavano alla sta zione, dal loro finto, e mal finto, aspetto rallegrato, che gli si rivelò il vero senso della diagnosi di Sémmola che a lui stesso aveva detto soltanto frasi rassicuranti; e fu allora, dopo esser sceso dal treno, mentre abbracciava la nuora sepolta nelle gramaglie di vedova, i figli che mostravano i loro denti nei sorrisi, Tancredi con i suoi occhi timorosi, Angelica con la seta del corpetto ben tesa dai seni maturi, fu allora che si fece udire il fragore della cascata.

Probabilmente svenne, perché non ricordava come fosse arrivato alla vettura; si trovò disteso con le gambe rattrappite, col solo Tancredi vicino. La carrozza non si era ancora mossa, e da fuori gli giungeva all’orecchio il parlottare dei familiari. “Non è niente.” “Il viaggio è stato troppo lungo.” “Con questo caldo sveniremmo tutti.” “Arrivare sino alla villa lo stancherebbe troppo.” Era di nuovo perfettamente lucido: notava la conversazione seria che si svolgeva fra Concetta e Francesco Paolo, l’eleganza di Tancredi, il suo vestito a quadretti marrone e bigio, la bombetta bruna; e notò anche come il sorriso del nipote non fosse una volta tanto beffardo, anzi tinto di malinconico affetto; e da questo ricevette la sensazione agrodolce che il nipote gli volesse bene ed anche che sapesse che lui era spacciato, dato che la perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza. La carrozza si mosse e svoltò sulla destra. “Ma dove andiamo, Tancredi?” La propria voce lo sorprese. Vi avvertiva il riflesso del rombo interiore. “Zione, andiamo all’albergo Trinacria; sei stanco e la villa è lontana; ti riposerai una notte e do mani tornerai a casa. Non ti sembra giusto?” “Ma allora andiamo alla nostra casa di mare; è ancora più vicina.” Questo però non era possibile: la casa non era montata, come ben sapeva; serviva solo per occasionali colazioni in faccia al mare; non vi era neppure un letto. “All’albergo starai meglio, zio; avrai tutte le comodità.” Lo trattavano come un neonato; di un neonato del resto aveva appunto il vigore.

Un medico fu la prima comodità che trovò all’albergo; era stato fatto chiamare in fretta, forse durante la sua sincope. Ma non era il dottor Cataliotti, quello che sempre lo curava, incravattato di bianco sotto il volto sorridente e i ricchi occhiali d’oro; era un povero diavolo, il medico

di quel quartiere angustiato, il testimonio impotente di mille agonie miserabili. Al di sopra della redingote sdrucita si allungava il povero volto emaciato irto di peli bianchi, un volto disilluso di intellettuale famelico; quando estrasse dal taschino l’orologio senza catena si videro le macchie di verderame che avevano trapassato la doratura

posticcia. Anche lui era un povero otre che lo sdrucío della mulattiera aveva liso, e che spandeva senza saperlo le ultime gocce di olio. Misurò i battiti del polso, prescrisse delle gocce di canfora, mostrò i denti cariati in un sorriso che voleva essere rassicurante e che invece chiedeva pietà; se ne andò a passi felpati.

Presto dalla farmacia vicina giunsero le gocce; gli fecero bene; si senti un po’ meno debole, ma l’impeto del tempo che gli sfuggiva non diminuì la propria foga.

Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guance infossate, la barba lunga di tre giorni: sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano nelle vignette di Verne, che per Natale regalava a Fabrizietto. Un Gattopardo in pessima forma. Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia? Perché a tutti succede così: si muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso imbrattato; anche Paolo, quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani?”

LETTURA BREVE

Lc. 9, 23-26
23Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. 
24Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. 25Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina sé stesso?
26Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell'uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi.

Nella lettura che avete appena ascoltato, troviamo, come ieri sera, nuovamente una persona che si guarda allo specchio, ma in una situazione del tutto differente. Non si tratta di una persona semplice come Teresa, ma di un principe, il principe di Salina il cosiddetto Gattopardo, un principe siciliano, possidente terriero che vede la fine dell’aristocrazia dovuta ai movimenti di risorgimento in vista dell’unità d’Italia, un ideale che ormai sta conquistando sempre più seguaci. Il principe si troverà costretto ad aderire in qualche modo e adeguarsi a questo movimento di rivoluzione, cosciente che la situazione della sua illustre famiglia andrà comunque peggiorando: egli si trova inesorabilmente di fronte alla decadenza della sua stirpe e dei suoi possedimenti, della sua Sicilia e insieme della sua stessa persona. Il principe, che era stato un bell’uomo, con una vita da donnaiolo, alla fine si trova a dover fare i patti con lo scorrere del tempo. Ciò che lo specchio gli rilancia è senza pietà: egli si vede come felino senza più vigore, un gattopardo spelacchiato. Ma la cosa più intrigante e pietosa, più delicata e commovente del brano che vi ho proposto, è quanto si descrive circa il passaggio del tempo: il venire meno delle energie vitali, paragonate ai granelli di sabbia che scendono da una clessidra o al vapore acqueo che, dissolvendosi, va in cielo a formare le nuvole. Il Gattopardo è profondamente cosciente di sé e della sua fine e la sua grandezza, nonostante tutti gli errori compiuti, riesce a rilucere anche in una situazione così greve.

A partire da questa pagina letteraria tanto sublime, così come tutte le volte che ci troviamo di fronte al fatto della morte, dobbiamo chiederci: che cosa è l’anima? Se in qualche modo non rispondiamo a questo interrogativo rischiamo di trovare solo una semplice ma quanto mai tragica risposta: il vuoto. Che cosa è l’anima? Che cosa significa essere anima?

Quando il Figlio di Dio si è fatto uomo, egli ha deciso di avere o meglio di essere un corpo, un corpo animato, nel quale c’è un respiro vitale che non è un respiro qualsiasi, ma è il respiro stesso di Dio; quel respiro che ha dato vita a tutta la creazione, che l’ha animata e continua a rianimarla e sostenerla.

Per capire che cosa è l’anima andiamo per prima cosa a cercare l’etimologia di questo termine e troviamo che viene dal greco, anemos; ma questo non ci aiuta tantissimo dal momento che il greco anemos significa vento, respiro, qualcosa di evanescente che è capace comunque di farsi notare e di mostrarsi attraverso i cambiamenti che mette in atto. I latini e dopo di loro i medioevali distinguevano tra “anima” (che è l’aspetto più immateriale, personale e immortale, per cui lo stesso Socrate decise di bere la famosa cicuta per mostrare come siamo abitati da un elemento di immortalità) e “animus” che è invece quell’elemento assolutamente personale che dice una trascendenza, un rapporto tra il creatore e la sua creatura. L’animus è dunque molto più affine a quanto denominiamo come “spirito umano” nel quale abita e si mostra, però, lo stesso Spirito divino. Nella cultura contemporanea si fa fatica ad utilizzare questi termini anche se la dottrina della Chiesa ci chiede di mantenerli. Oggi, però, è sempre più difficile usare la parola anima perché, come già accennato, la scienza sembra sempre più sottrarre spazio alla sfera spirituale umana offrendo spiegazioni spesso deterministiche circa il funzionamento fisio-biologico dell’essere umano e dei suoi meccanismi profondi. Nonostante questo, io credo che, anche di fronte ad una barriera culturale come questa, ad un limite di spazio che si fa sempre più stretto, l’anima abbia comunque il potere di manifestarsi, di venire alla superficie e di farsi sentire, così come, per richiamare alla memoria le parole di Kundera, un equipaggio esce dalla stiva della nave per salire sul ponte.

Come l’anima allora riesce a farsi sentire? Forse questa stessa situazione di limite ci può illuminare a tal punto che sono tentato di proclamare quasi un assioma circa le potenzialità inattese della dinamica del limite stesso: il limite è sorgente dell’anima. In che senso?

Guardiamo innanzitutto all’esperienza primordiale che ognuno di noi fa, quella del bambino quando si trova nella pancia della madre. La pancia della madre limita il bambino perché non gli permette di muoversi come vorrebbe e potrebbe: questo limite, però, lo custodisce e, anzi, gli permette di esistere, gli permette di non finire nel “nulla”. Il bambino ha bisogno di uno spazio circoscritto che ne custodisce la vita e la fa crescere.

Il limite è qualche cosa che ci priva di alcune potenzialità ma, allo stesso tempo, ci garantisce, ci cura, ci custodisce. Senza un limite non avremmo mai la coscienza di noi stessi perché è proprio scontrandoci, tirando calci alla pancia della mamma che impariamo a sentire tanto il corpo della madre quanto il nostro. Senza questo incontro-scontro, che appunto è il limite, non vi è la possibilità per l’anima di venire a galla. Parallelamente, anche la coscienza di sé, la dimensione più spirituale e più intima dell’uomo, ha bisogno di scontrarsi con il limite naturale. E’ proprio il limite naturale che, ultimamente, permette all’uomo di tirar fuori tutte le sue potenzialità. Se ci pensate bene, si tratta di una situazione simile a quella degli artisti, i quali, posti di fronte alla durezza e all’inerzia della materia che sembra non lasciarsi plasmare, trovano spazio e modo di dar vita ad un’idea che essi portano in sé e che gli fa intravedere nella materia stessa potenzialità insperate per dar vita ad esempio a un disegno o a una statua. Senza la durezza della pietra, senza la resistenza della pietra non ci sarebbe neanche il gesto dinamico e pieno di creatività dell’artista che, secondo l’affermazione dello stesso Michelangelo, tira fuori dal blocco di marmo quanto già vi ci abita. Ci vuole la resistenza della materia perché l’idea possa prendere forma.

Tutta la nostra vita è segnata dal limite anche nella sua fase evolutiva. Quando diventiamo grandi, se non abbiamo dei genitori che ci insegnano l’importanza dei e l’importanza dei no, cresciamo senza reale coscienza di noi stessi. Ho notato più volte come che i genitori migliori siano quelli che sono molto bravi a insegnare i no non in senso punitivo, ma in senso propriamente “educativo”; cioè, dicono dei no per “tirar fuori” (educere in latino) i loro figli da una situazione di pericolo o di puro egoismo che è poi, forse, la condizione più naturale di ciascuno di noi. Infatti, nasciamo pieni di bisogni e con il desiderio di soddisfare questi bisogni ma dobbiamo imparare fin da piccoli che non tutto ciò che sentiamo può essere soddisfatto. Perciò alcuni no sono essenziali per creare in noi quello spazio che sarà poi abitato dall’altro. Senza i no non saremmo mai capaci di diventare enpatici, cioè capaci di farci abitare dalla presenza dell’altro, di abitare fianco a fianco con l’altro. Pensate a che cos’è l’esperienza della fraternità, della vita fraterna: è anzitutto dividere l’attenzione dei genitori. I fratelli, oltre a essere un’opportunità, sono anche un grande limite perché senza il fratello avresti doni e attenzioni solo per te; e invece il limite che si identifica con il fratello stesso ci insegna in qualche modo a fermarci, a far spazio agli altri. Senza il limite l’intera società rischierebbe di non sussistere perché sarebbe piena solo di gente egoista, incapace di dividere le attenzioni con gli altri. L’esperienza di fraternità, per gradi differenti, dai famigliari fino alla fraternità umana è un’esperienza ricca e fondamentale per ciascuno di noi. Anche la convivenza civile, tanto con i connazionali quanto con persone di culture e di religioni differenti, è una grandissima palestra in questo senso: non solo una palestra di pace sociale, ma una palestra per il nostro cuore, che ci insegna ad allargare gli orizzonti della mente e del cuore e a non dipendere esclusivamente dai bisogni immediati.

In un’immagine che possa simboleggiare quella che ho chiamato la dinamica del limite: c’è un di più che sorge in noi e che si manifesta proprio quando ci troviamo di fronte un muro: ti viene voglia di scavalcarlo ma allo stesso tempo diventi cosciente delle tue reali possibilità capacità, se hai, cioè, la forza di scavalcarlo o se scavalcarlo diventa un pericolo per te (e eventualmente per gli altri!) e rischi così di sfracellarti. Ma senza questa barriera non emergerebbe la potenzialità dell’anima in tutta la sua forza e in tutte le sue dimensioni spirituali.

L’anima oltre a vedere il muro, oltre a sentire quel limite è però anche potenzialità di oltrepassarlo: è quella forza che ti permette di scavalcarlo, questo muro! Ad esempio, nell’esperienza dell’innamoramento è interessante come l’anima si manifesti: essa è esperienza di fusione. Quando uno si innamora, prima della fusione dei corpi già vive l’esperienza della fusione delle anime. Certo questa esperienza può essere dovuta a un’idea romantica dell’altro, a uno stereotipo, piuttosto che a un’idealizzazione di fondo. Tuttavia, è indubitabile che, quando c’è l’amore vero, i due interpreti di questo sentimento spesso si esprimono come se ciascuno di loro sentisse i sentimenti dell’altro, come se vivesse la vita dell’altro. Certo poi l’amore ha tante stagioni, tante evoluzioni; la fase dell’innamoramento non sempre accompagna tutte le fasi dell’amore, però quando si impara a sentire con il cuore dell’altro, oltre che a sentire l’altro, è segno che l’anima esiste e che non segue soltanto i movimenti e i tempi del corpo, che non dipende soltanto dall’unirsi dei corpi. Così, quando anche anima e corpo si fondono insieme si arriva davvero all’apice mistico esperienza umana.

Dunque, l’anima si manifesta di fronte ad un ostacolo ma si rivela anche come potenzialità di oltrepassare tale ostacolo. Questa sera abbiamo ascoltato dalle pagine del Gattopardo che c’è un limite che sembra insormontabile, l’ostacolo per eccellenza, per definizione: la morte. Lo sguardo del narratore è molto disincantato, è uno sguardo quasi pessimistico di fronte al cedere delle cose, alla decadenza che ormai ha paradossalmente “messo in moto” tutta la vicenda del Gattopardo, della sua famiglia e dei suoi vicini. Dal punto di vista propriamente cristiano la morte può essere vista come tragedia ma allo stesso tempo come quel limite che sa far scaturire l’anima e stimolarla in tutte le sue potenzialità.

Prima di arrivare alle pagine del Vangelo propongo brevemente di riflettere su altre tre figure letterarie: Faust che viene tentato da Mefistofele e che vende la sua anima per avere tutte le conoscenze a sua disposizione, per fare tutte le esperienze possibili; la sua è la dimensione della mancanza del limite per eccellenza. Non dandosi più limiti, egli finisce per perde la sua anima, la dona al demonio che lo sta tentando. La seconda figura è quella del vampiro, di Dracula, il dannato per eccellenza perché è uno che vive eternamente, è costretto a vivere in questo mondo senza una fine, e cioè, nuovamente senza un limite. Anche oggi vediamo in televisione certe serie americane che hanno come protagonista il vampiro. Il vampiro riesce a unire l’erotismo, il sentimento d’amore, e la violenza come se fossero la stessa cosa; è un amore che è il contrario di quello che dicevamo ieri, che non rappresenta, cioè, il godere e il celebrare la vita. È, piuttosto, succhiar via la vita dall’altro, è rendere l’altro tuo oggetto, anche se lo ami, perché tu possa ad ogni modo continuare a permanere per sempre. Una vita che non ha un limite è una vita dannata: è una vita che ha bisogno di distruggere l’altro per sussistere. Qui c’è un amore tragico e perennemente irrisolto, mascherato sotto le sembianze inaudite della violenza, ma soprattutto c’è una radice di violenza che, viceversa, si è mascherata d’amore.

Il terzo personaggio è Peter Pan. Siamo abituati a trattarlo come materiale immaginifico e innocuo per bambini ma originariamente, nella pièce teatrale in cui fece la sua prima apparizione, era stato concepito dall’autore come un personaggio avente alcuni tratti demoniaci. Anche nel racconto che conosciamo però ci sono alcuni indizi di questa sua natura ambigua: Peter Pan perde la sua ombra. Ma che cos’è l’ombra se non il proprio limite posto in evidenza dalla luce? Non è forse il “contorno” della persona che ci richiama costantemente il fatto che abbiamo una consistenza e un limite? L’ombra non è forse anche il segno del passare del tempo che si proietta sul pavimento a seconda della posizione del sole e quindi del volgersi della giornata? Peter Pan perde la sua ombra, perché in fondo vuole restare bambino per sempre e, con questo, rimane egoista per sempre, bravo a burlarsi degli altri e a fare scherzi ma incapace di creare relazioni durature di pura assistenza e di amore.

Queste tre vicende letterarie si assomigliano molto in fondo, e tra tutte si staglia quella di Faust che condanna la sua anima alla dannazione propriamente quando chiede a Mefistofele di fermare l’attimo, di fermare cioè il tempo. Queste tre figure sono tutte legate da una simile dimensione: sono dannate perché non accettano di avere un fine, non hanno un termine né un tempo da riempire e da vivere. Chi ha una fine verso cui andare, sente il bisogno e il dovere di animare ogni momento della sua vita; sente, cioè, il dovere, il bisogno e la gioia di dare un senso ad ogni momento della sua esistenza.

Veniamo al Vangelo che vi ho proposto: nella traduzione attuale si dice “chi non salva sé stesso”. In quella precedente si diceva “chi non salva la propria anima” e si usava propriamente la parola greca che traduciamo solitamente con anima, psyche. Il significato del passaggio evangelico è più o meno questo: se perdi la tua vita, se perdi il tempo e perdi la coscienza dell’urgenza di questo tempo, finisci per perdere anche te stesso! Le cose importanti di oggi e che non puoi farle domani, falle adesso oggi. Se hai litigato con qualcuno, non aspettare un domani generico e neanche il Natale: comincia oggi a costruire le condizioni per chiedere perdono e per riconciliarti pienamente con le persone con cui hai lottato, soprattutto se esse sono parte della tua famiglia: Se non hai mai detto le parole che contano a tua moglie o a tuo marito cerca di dirle oggi perché la vita va vissuta fino in fondo adesso non domani: lo sappiamo, domani sarà migliore se saprai rendere l’oggi migliore.

In sintesi, il limite, che la morte radicalmente è, si manifesta anche come qualcosa che ci pone di fronte proprio sbarrandoci la strada una possibilità: quella di diventare sorgente di un modo di vivere nuovo e persino di una vita nuova, migliore, animata. D’altra parte, non c’è vita eterna senza una vita rinnovata!

Contempliamo ancora, come abbiamo fatto ieri, Gesù. La grandezza di Gesù non è semplicemente quella di aver offerto un corpo che sana, celebra e si dona, ma è anche la grandezza di colui che ha saputo rianimare una situazione, la situazione di crisi in persone semplici, la situazione di crisi nelle famiglie che ha incontrato, la situazione di crisi di un popolo intero.

Concludo con un’altra immagine tratta dalla storia dell’arte. Un famoso pittore francese, Georges Rouault, aveva una vera passione per due figure che forse sentiva molto affini e che amava dipingere spesso: la figura del Cristo e quella del pagliaccio. Il pagliaccio è, se ci pensiamo bene, una figura Cristica, non in senso negativo, per prendere cioè in giro la fede evangelica; tutt’altro! Il pagliaccio non fa altro che prendere su di sé il dramma degli altri, ripresentarlo sotto nuove forme e in maniera ridicola, per permettere così al prossimo di sorridere di se stesso e dei propri limiti, di togliersi di dosso il peso dell’esistenza e degli sbagli che in qualche modo egli o ella ha commesso. Abbiamo tanto bisogno di persone così! Di persone che funzionino nella società come una sorta di termometro sociale: nella nostra famiglia, nelle comunità cristiane e nello spazio civile; che capiscano, cioè, quale cambiamento e rinnovamento, anche attraverso un sorriso, una battuta fatta con gusto, con intelligenza, quale nuova linfa vitale si possa instillare in situazioni incancrenite, di tristezza, di decadenza e di conflitto. Abbiamo bisogno di santi pagliacci, così come Francesco amava rappresentarsi; lui, il folle di Dio! Folle non semplicemente perché innamorato dell’amore assoluto, ma anche perché, con le sue parole, i suoi gesti e i suoi canti ha saputo generare amore in molti, vincendo gli odi e trasformando, così, il clima sociale nel quale si trovava a vivere e ad attraversare.

A conclusione di questa riflessione facciamoci allora queste domande:

  • Sono capace di godere ogni momento della mia vita, di dare un senso al mio tempo?
  • Qual è il rapporto profondo che ho nel mio cuore con l’idea della morte: è soltanto un limite che uccide le mie possibilità di vita o è un limite che dà senso e valore aggiunto ad ogni momento che sto vivendo?
  • Sono capace di misurare, di essere come il termometro della situazione di vita almeno delle persone a me più vicine?
  • Sono capace di ridicolizzarmi purché l’altro che si trova nel bisogno sia felice?
ESSERE CORPO

ESERCIZI SPIRITUALI DI AVVENTO 2018

ESSERE CORPO

Lunedì 26 novembre - 1° incontro

Brano introduttivo tratto da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera.

“Teresa è quindi nata da una situazione che rivela brutalmente l’inconciliabile dualità, di corpo e ani ma, esperienza umana fondamentale. Tanto tempo fa, l’uomo ascoltava, con stupore un suono di colpi regolari che veniva dal suo petto e non si immaginava certo che cosa fosse. Non riusciva a identificarsi con una cosa tanto estranea e sconosciuta come un corpo. Il corpo era una gabbia e al suo interno c’era qualcosa che guardava, ascoltava, aveva paura, rifletteva e si stupiva; questo qualcosa, questo resto lasciato dalla sottrazione del corpo, era l’anima. Oggi, ovviamente, il corpo non è più uno sconosciuto: sappiamo che ciò che batte nel petto è il cuore, e che il naso è l’estremità di un tubo che sporge dal corpo per portare ossigeno ai polmoni. Il viso non è che un quadro di comando dove vanno a sfociare tutti i meccanismi del corpo: la digestione, la vista, l’udito, la respirazione, il pensiero. Da quando l’uomo sa nominare ogni sua parte, il corpo lo preoccupa meno. Ormai sappiamo anche che l’anima non è che un’attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori moda. Ma basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino, perché l’unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell’età della scienza, svanisca di colpo.

Lei cercava di vedere sé stessa attraverso il proprio corpo. Per questo stava così spesso davanti allo specchio. E avendo paura essere sorpresa dalla madre, gli sguardi che dava allo specchio avevano il marchio di un vizio segreto. Quello che l’attirava verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio io. Dimenticava che stava guardando il quadro di comando dei meccanismi del corpo. Credeva di vedere la sua anima che le si rivelava nei tratti del suo viso. Dimenticava che il naso non è che l’estremità di un tubo che porta aria ai polmoni. In esso vedeva l’espressione fedele del proprio carattere. Si guardava a lungo e a volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei stessa. Quando ci riusciva, era un momento di ebbrezza: l’anima saliva sulla superficie del corpo come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le meni verso il cielo e canta.”

LETTURA BREVE

Mt. 3, 13-17

13In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia». Allora Giovanni acconsentì. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».

Abbiamo un corpo o siamo un corpo? Questa è la domanda che ci pone la pagina che abbiamo appena ascoltato, tratta da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, romanzo scritto durante la primavera di Praga, al tempo dell’invasione russa che racconta la vicenda di due personaggi, un chirurgo donnaiolo e una ragazza di nome Teresa. Il primo simboleggia la leggerezza del vivere che non vuole prendersi responsabilità ma che col tempo perderà leggerezza. La seconda simboleggia la pesantezza del vivere rappresentata dal rapporto con la madre.

Abbiamo ascoltato l’esperienza di Teresa, il rapporto con il suo corpo che sembra essere molto adolescenziale nel modo con cui ella lo vede allo specchio. Quante volte anche noi ci ritroviamo a guardare lo specchio e ci domandiamo se siamo veramente noi, se quello che vediamo corrisponde alla vitalità che abita nel nostro cuore o al contrario se il nostro cuore stanco si riconosce nel fisico ancora giovane che vediamo nello specchio.

I momenti della vita sono scanditi da questa dualità, del rapporto con il nostro corpo, che da una parte è noi stessi e dall’altra sembra non appartenerci fino in fondo. Sono soprattutto i momenti di crisi che sembrano insinuare una divisione, una spaccatura tra queste due dimensioni. Nel testo di Kundera sentivamo un riferimento alla cultura contemporanea nella quale lo spazio dell’anima sembra sempre più venire sottratto da una scienza che ci insegna la profonda compenetrazione tra l’aspetto psicologico e l’aspetto fisiologico. Tutto quello che gli antichi rappresentavano in forma di mistero, addirittura lo stesso battito del cuore, il mistero di svegliarsi respirando, quello che un bambino è chiamato a fare per abbracciare la vita che gli si fa incontro, tutte queste dinamiche erano antropologicamente lette come dimensione del simbolico, del mistero, del sacro, qualcosa avvolto da una dimensione più grande di noi che ci sovrasta pur abitandoci. Oggi la scienza ci aiuta invece a leggere queste dinamiche in maniera fisiologica e talvolta materialistica e deterministica. Soprattutto gli studi delle neuroscienze ci insegnano come le nostre emozioni vengano da qualche soluzione chimica, da qualche dipendenza da ormoni, da elementi biologici e allora tutto quello che ci sembra essere l’ambito dell’immaginifico, della psiche, dell’anima della persona sembra sempre più ridotto a qualcosa di descrivibile in maniera sempre più concreta e talvolta materialistica. Se pensiamo anche ai grandi risultati della medicina, soprattutto di quella occidentale rispetto alle medicine orientali che hanno sempre cercato di mantenere un’idea di unità del corpo e dell’anima, ci rendiamo conto che la medicina occidentale senza l’anatomopatia non si sarebbe mai sviluppata. Ma cos’è l’anatomopatia se non dividere un corpo e trattarlo come un insieme di parti? La medicina ha bisogno di sezionare per riuscire ad operare e mentre seziona divide una realtà unitaria e rischia di perdere il suo insieme. La cultura di oggi ci porta a focalizzarci sul particolare perdendo di vista l’insieme: così anche il corpo perde sempre di più la dimensione del mistero e acquista sempre più la figura di un insieme di parti.

Mentre navighiamo in questa cultura, che trova eco nelle pagine di Kundera, come cristiani dobbiamo chiederci quale immagine del corpo abbiamo e soprattutto che cosa ci dice il vangelo del battesimo di Gesù, quello che abbiamo appena ascoltato, che cosa ci dice a proposito del corpo di Gesù e quindi che cosa può dirci del nostro corpo.

Le nostre tre serate, che ho intitolato “essere corpo”, “essere anima”, “farsi storia”, sono collegate l’una all’altra per arrivare a descrivere in termini contemporanei il senso del mistero e del dogma dell’Incarnazione.

Ci avviciniamo al Natale che non è semplicemente il prendere corpo di Dio, ma diventare corpo, essere corpo da parte di Dio. Questo dovrebbe colpirci e sconvolgerci. Per noi cristiani, infatti, l’Incarnazione non è semplicemente prendere su di sé un vestito che poi può essere tolto, ma è entrare nelle più intime dinamiche della storia: è diventare una personalità, una vicenda umana, avere delle fattezze particolari. Per questo motivo molti mistici e santi pensavano e pregavano Maria mentre osservavano le icone di Gesù, perché capivano che anche nelle fattezze di Gesù c’era in qualche modo una traccia delle fattezze di Maria. Così come nel nostro corpo ci sono tracce delle fattezze dei nostri genitori. Questa dinamica del “prendere corpo” da parte di Dio, di “essere corpo” da parte di Dio, significa davvero mischiarsi con vicende umane singole e particolari.

Mi fermo su questo punto dal momento che viviamo in un’epoca utilitaristica; non siamo più ai tempi dei primi cristiani che facevano lotte e dispute pur di dire la loro sull’identità e il mistero di Dio. A noi dell’identità di Dio interessa poco, purtroppo! Ci interessa piuttosto capire cosa implichi l’identità di Dio sul nostro versante. Cercherò in queste sere, comunque, di affrontare il mistero di Dio attraverso tre passaggi, sempre però con la riflessione di come il mistero - nella sua luce e talvolta nella sua ombra, perché il mistero rimane qualcosa di insondabile - ci raggiunge ed è capace di leggere la nostra realtà umana e quindi anche la nostra realtà corporale.

Entriamo nel vivo del vangelo che abbiamo appena letto: riguarda il corpo di Gesù che emerge dopo il battesimo dalle acque del Giordano. La storia dell’arte si è scatenata su questa pagina non fosse altro perché dava la possibilità di raffigurare l’anatomia maschile in tutta la sua bellezza e anche in tutta la sua armonia, mettendo in evidenza anche l’aspetto sessuale di Gesù, che non si incarna in una persona generica ma si incarna in una persona di sesso maschile. Il battesimo diventa l’occasione per mostrare nella nudità di Gesù che emerge dall’acqua l’anticipazione di quella che sarà la nudità finale di Gesù stesso sulla croce. Sono due nudità altamente simboliche, che sono poste in dialogo tra di loro e che, a loro volta, si distinguono da un’altra nudità che troviamo nella Bibbia, quella di Adamo, Adamo l’uomo creato da Dio ma già corrotto dalle sue scelte, che si ritrova ad essere nudo non perché innocente ma perché si ritrova schiavo. Lo schiavo infatti era nudo perché non aveva la capacità e la possibilità di coprirsi ma doveva semplicemente badare al suo lavoro e non al suo corpo che diventava oggetto meccanico per il compimento di opere volute da altri.

Gesù, invece si presenta come nuovo Adamo, nella sua nudità. Nella bellezza del suo corpo mostra un’innocenza ancora possibile perché proviene da Dio. Entrando nelle acque del battesimo anche noi possiamo ricevere in qualche modo l’innocenza che il corpo di Cristo, corpo santo, è capace di emanare. E’ proprio su questa dimensione che vorrei riflettere anche in relazione a ciò che la liturgia ambrosiana, ma non solo, ha pensato al riguardo nel tempo dell’Epifania. Le Messe del tempo dell’Epifania, soprattutto nei prefazi, richiamano alla memoria dei fedeli tre episodi successivi che riguardano la vicenda umana di Gesù e, in modo particolare, il modo di porsi del suo corpo in tre episodi considerati epifanici cioè che manifestano il volto cristiano di Dio. Gli episodi sono il battesimo di Gesù, le nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani.

Entriamo in queste vicende chiedendoci qual è la funzione del corpo di Gesù così come il Vangelo ce la presenta.

Il battesimo di Gesù. I Padri della Chiesa avevano avuto una grandissima intuizione: secondo loro una volta che il corpo del Figlio di Dio è entrato nelle acque, tutte le acque della terra sono risultate benedette. I Padri della Chiesa, tra cui anche Ambrogio, riflettevano sul fatto che ricevere il battesimo significa entrare nell’acqua che è già stata segnata dalla presenza di Dio. L’immagine che i Padri della Chiesa ci consegnano è quella di un corpo, quello di Cristo, capace di sanare; dunque, un corpo che sana. Nel contesto della cultura contemporanea che nel tentativo di leggere in continuità l’anima e il corpo non riesce più a capire il di più di esperienze fondamentali come l’innamoramento, la malattia, la morte, la crisi, momenti in cui anima e corpo sembrano non dialogare più così tanto bene, in questo specifico contesto che cosa significa un corpo che sana? Un corpo che sana significa il desiderio di Gesù di farsi vicino ai peccatori: il battesimo è questo. Gesù non aveva bisogno di essere purificato dai peccati ma voleva manifestare il desiderio di Dio di essere insieme agli peccatori fino in fondo. Anche la posizione geografica in cui avviene questo episodio, a suo modo lo dice: il battesimo avviene nel Giordano, il punto più basso nella geografia della Terra di Israele, è la depressione più grande quasi a dire che è una sorta di anticipo della discesa di Gesù agli inferi. Fin dall’inizio della sua missione apostolica ed evangelica, Gesù vuole condividere il destino degli ultimi e degli abbandonati, dei peccatori, e si spinge fino in fondo nella voragine del peccato umano per sanarlo alla sua radice. Il corpo di Gesù comincia qui a mostrarsi come un corpo che è capace di trasformare il corpo delle altre persone attraverso il suo tocco, attraverso la sua carezza, attraverso la sua tenerezza e intimità. Gesù ci mostra come anche il nostro corpo, anche se preso dalle dinamiche di peccato e per questo non riesce a “venirci dietro”, fa fatica a portarci avanti nella vita di tutti i giorni; nonostante tutto ciò il nostro corpo è potenzialmente sacramento della tenerezza di Dio. A questo proposito pensiamo a tutte le parole spese da papa Francesco quando dice che non dobbiamo avere paura della tenerezza e del nostro corpo e che quando ci chiediamo che cosa siamo, c’è sempre una risposta possibile: non siamo semplicemente un qualcosa, che si limita ad agire strumentalmente, ma possiamo trasformare la realtà intorno a noi, soprattutto la realtà dei corpi vicini a noi prendendoci cura in particolare dei malati, dei morenti, dei sofferenti.

Fin dall’inizio Gesù si manifesta come medico delle nostre anime e dei nostri corpi, un medico molto diverso dai medici di oggi. Lui sa vedere le malattie dell’anima nel corpo e le malattie del corpo nell’anima e sa far dialogare questi due elementi senza scinderli ma vedendo in essi una profonda unità e anzi riportando unità là dove c’è dissidio.

Il secondo episodio, sempre connesso a questa dimensione epifanica, è quello delle nozze di Cana. Qui vediamo che Gesù, anche grazie all’intervento di Maria, è un corpo che celebra, non solo un corpo che sana: un corpo che celebra e sa vivere l’ebbrezza dei rapporti; sa anche portare ebbrezza là dove rischia di nascere la tristezza. A questo proposito non possiamo tacere una realtà fondamentale: siamo tutti persone con un eros che è disegnato nel profondo dei nostri corpi. Eros e agape andrebbero meglio declinati e correlati. Ricordiamo ad esempio l’episodio del bacio al lebbroso di San Francesco, che noi abbiamo sempre visto come un pio episodio ma è piuttosto un episodio epifanico. Francesco, poco prima di baciare lebbroso si era spogliato nudo davanti al vescovo. Ebbene nudità e bacio sono due simboli profondamente erotici ma Francesco ci mostra come queste due dimensioni, quando sono vissute in Dio e per Dio, non dicono il contrario di ciò che Dio vuole. Senza eros, senza una spinta, un’attrazione nei confronti dell’altro non c’è carità possibile. Provare attrazione per un lebbroso è un po’ un paradosso ma in questo Francesco ci mostra propriamente come la natura dell’eros più ancora che l’agape sia quella di essere “amanti dell’amore”, molto di più della sola dimensione corporea dell’altro. Senza essere folli per l’amore, i santi della carità non avrebbero mai avuto la forza di uscire da sé stessi e andare incontro e toccare con mano il corpo macilento di un malato. In questo ci aiuta anche un grande pensatore russo, Vladimir Solov’ëv, il quale diceva che senza il sentimento erotico, senza il bisogno sessuale, l’uomo rimarrebbe una monade chiusa in sé stesso. Il desiderio sessuale, dunque, è una forza essenziale che ci porta ad uscire necessariamente da noi stessi. Quando l’eros è vero ci prende e ci fa uscire dal nostro piccolo mondo. Non c’è ambiguità quando l’amore è concepito in continuità con il volere di Dio. Tutto questo ci chiede di domandarci: come vivo il mio corpo e come vivo il corpo dell’altro? Lo vivo solo come un peso o lo vivo anche come un dono e un piacere? Sono capace di celebrare la vita nel donare piacere all’altro e nel ricevere piacere dall’altro? Questa è una dimensione assolutamente essenziale nella vita cristiana soprattutto se si è sposi, anche quando si è avanti negli anni. Chi non ha il senso del piacere non sa celebrare la vita, non sa lodare Dio; soprattutto nei momenti più alti di cui Dio ci ha fatto dono, come quello dell’incontro sessuale tra uomo e donna.

Lo sposalizio di Cana richiama tutto questo nella sua simbologia: c’è l’incontro tra due persone, c’è il dono del vino nel quale viene trasformata l’acqua che, pur nella sua purezza, non è più capace di dire la pienezza del dono di Dio. È interessante questo passaggio: dall’acqua del battesimo simbolo di purezza, alla crescita nella simbologia verso l’ebbrezza del vino. Uno che cresce nel suo cammino cristiano deve passare attraverso le acque della purificazione del battesimo e crescere verso l’ebbrezza della celebrazione, saper lodare Dio persino di fronte alla morte. San Francesco chiamava la morte come la sua sposa, sua sorella. Senza eros non riusciamo neanche a morire perché nei confronti della morte non riusciamo a vincere la paura se non ne abbiamo un profondo desiderio: un desiderio che non è nichilista, ma la voglia di scoprire cosa c’è oltre, cosa si aprirà di fronte alle nostre esistenze. Senza questo eros, anche nei confronti dell’aldilà, non riusciremo mai a celebrare la vita di ogni giorno perché altrimenti la vita sarà solo un peso e la paura della morte sarà ad ogni angolo a minacciare l’integrità del nostro vivere.

L’ultimo episodio è la moltiplicazione dei pani. In Gesù contempliamo il mistero di un corpo che si dona. La moltiplicazione dei pani è un segno connesso anche alla dimensione eucaristica. Non c’è Eucarestia se non c’è ebbrezza. Il ringraziamento nasce da un cuore che sa vivere la gioia fino in fondo. L’Eucaristia però ci chiede non semplicemente di celebrare la bellezza della nostra vita, ma ci chiede di celebrare il sacrificio della vita di Cristo stesso ed essere all’altezza di questa celebrazione e di questo sacrificio. Ci chiede di diventare corpo spezzato e donato, come lo è il corpo di Cristo: spezzato e donato. Non è un caso che gli orientali quando raffigurano la nascita di Gesù lo immaginano posto non tanto in una greppia, quanto in una sorta di tomba: perché quel corpo deposto nella mangiatoia, già anticipa una deposizione che avverrà solo quando il corpo di Gesù, spezzato e dato, sarà deposto nel sepolcro.

L’apice della vita cristiana è imparare non semplicemente a sanare il corpo degli altri con la nostra misericordia, con il nostro amore, non è semplicemente ricevere piacere dagli altri e donare piacere agli altri ma imparare a donarsi, nella forma che Gesù ci ha mostrato e indicato che è appunto la forma di colui che fa cinque passi indietro piuttosto che l’altro non sia, di colui che per essere sé stesso ha bisogno che l’altro sia, ha bisogno cioè di donarsi fino in fondo. Di fronte a tutte le crisi che la cultura contemporanea pone di fronte ai nostri occhi riguardo alla nostra identità e al nostro corpo abbiamo qui una grande risposta. Tutte le volte che andiamo a Messa e riceviamo l’Eucaristia sappiamo che quel corpo spezzato e donato diventa il nostro corpo, anche a seconda di quanto noi tutti siamo capaci di diventare una cosa sola. Allora quell’alimento, quell’energia diventa circolo vitale non più per un corpo solo ma per una moltitudine. Infatti, si dice un “corpo spezzato e dato per molti”, e quando da tanti si diventa un corpo solo ecco che si rientra nel progetto originario di Dio che ha creato l’uomo con tanta diversità, tante culture, tante religioni, tante lingue diverse. Ma il progetto di Dio è fare di tutta l’umanità un corpo solo il cui capo è appunto Cristo; e quando noi ci chiamiamo Chiesa, ci chiamiamo anche corpo mistico di Cristo. In fondo, Cristo ha portato nella sua risurrezione una novità nella realtà stessa di Dio che è un corpo umano, ma ha portato anche una novità nella storia umana: è un corpo divino che è sempre presente là dove sono presenti i suoi fratelli, là dove è presente la sua ecclesia, ovvero la sua assemblea.

Cominciamo questo cammino facendoci pertanto queste domande:

  • Che valore ha il mio corpo?
  • Che valore ha il corpo di quelli che ho al mio fianco?
  • Che rapporto ho con il corpo di Cristo che io ricevo nell’Eucarestia ma che scopro nel povero, nel sofferente, in chi ha bisogno del mio contatto che sana, così come nella comunità cristiana?
  • Sono uno che si lascia spezzare per essere donato o sono uno che spezza gli altri per non donarsi?

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Catechesi 2017-18

Il canovaccio della catechesi di quest’anno riprende lo schema dell’anno scorso.

Ci saranno dei momenti di catechesi a cadenza quindicinale nei tempi ordinari (ottobre - novembre, febbraio e aprile).

In Avvento ci saranno gli esercizi spirituali predicati da un giovane prete, Paolo Alliata.

La catechesi ordinaria sarà affiancata da tre catechesi bibliche, al sabato pomeriggio alle 18 nei mesi di gennaio e maggio.

In Quaresima è previsto il quaresimale del venerdì a cadenza settimanale. Come vedete abbiamo una proposta di catechesi significativa.

Quest’anno nel nostro percorso di catechesi, faremo una riflessione articolata sul Padre Nostro. È la preghiera per eccellenza del cristiano della quale cercheremo di scoprirne aspetti vari. È una preghiera che tutti conosciamo a memoria e corriamo il rischio di ripeterla per abitudine.
Scopriremo il Padre Nostro come preghiera semplice, quotidiana e come preghiera della comunità cristiana inserita nella celebrazione della Messa e nella liturgia delle ore.

 Di seguito i documenti degli incontri:

 

Catechesi 2016-17

La proposta formativa di quest’anno è molto variegata e si articola in vari momenti:

  • La catechesi del giovedì sera alle ore 21 in S. Giovanni Bono
  • tre sere di esercizi spirituali per adulti il 21-22-23 novembre alle ore 21 in S. Bernardetta
  • sei incontri di scuola biblica
    • tre nei sabati 7-14-21 gennaio alle ore 18 in SS Nazaro e Celso
    • tre nei sabati 6-13-20 maggio alle ore 18 in SS Nazaro e Celso
  • quattro incontri quaresimali nei venerdì 17-24-31 marzo e 7 aprile alle ore 21 in S. Giovanni Bono
  • tre incontri decanali sulla famiglia alle ore 15.30, il 12 novembre a S. G. Barbarigo, 14 gennaio a S. M. Ausiliatrice e il 1° aprile a S. Rita

 Di seguito i documenti degli incontri:

 

Catechesi 2015-16